Il 21 maggio si celebra la Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo. Un appuntamento promosso dalle Nazioni Unite per valorizzare la ricchezza delle differenze, contrastare le disuguaglianze e promuovere la coesistenza tra persone con background diversi.
Nel contesto italiano, questa ricorrenza assume un significato particolarmente attuale. Oggi più di cinque milioni di persone nate all’estero vivono stabilmente nel nostro Paese, contribuendo alla società sotto molti aspetti: lavoro, scuola, cultura, cura, imprenditoria. Eppure, nonostante sia ormai presente su tutto il territorio, la componente multiculturale fatica ancora a trovare pieno riconoscimento in ambito sociale, culturale e politico.
Lo dimostra anche il divario tra presenza effettiva e rappresentazione pubblica. A fronte di una crescente pluralità di origini, lingue, storie e fedi, il racconto prevalente continua a rifarsi a un modello culturale unico, tradizionalmente inteso come “italiano”. Chi si discosta da questo modello, per aspetto, accento, nome o abitudini, viene ancora troppo spesso percepito come “altro”, periferico o “fuori posto”.
Per approfondire questo scarto tra realtà vissuta e percezioni collettive, l’Osservatorio D — nato dalla collaborazione tra Valore D e SWG — ha realizzato l’indagine “La percezione delle diversità etnico-culturali da parte degli italiani”. Il lavoro, condotto su un campione rappresentativo di 800 persone adulte, rappresenta un primo passo per comprendere come viene definita la diversità culturale in Italia e l’impatto che questa ha nella vita quotidiana e lavorativa.
Cosa rende una persona “straniera”?
Uno dei primi elementi emersi dall’indagine riguarda i criteri con cui si tende ad attribuire a qualcuno un’identità straniera. Il 50% delle persone intervistate indica come elemento determinante la lingua: parlare un idioma diverso da quello ufficiale è, per metà del campione, sufficiente per considerare una persona “straniera”. Seguono l’essere nati/e all’estero (44%), il colore della pelle (13%), la religione (9%) e l’origine familiare — come avere almeno un genitore nato in un altro Paese (8%).
Tra le persone più giovani (18-34 anni), è proprio quest’ultimo fattore a emergere con più forza: il 20% lo considera, infatti, determinante. Il dato suggerisce che l’idea di appartenenza continua a essere legata anche alle radici familiari, non solo al percorso di vita o alla cittadinanza formale.
Dati vs. percezioni: le comunità “più presenti”
Un altro aspetto interessante riguarda la percezione che le persone rispondenti hanno della “presenza” di alcune comunità sul territorio. Le persone intervistate citano soprattutto gruppi nordafricani e dell’Europa orientale — marocchina, egiziana, rumena, albanese — seguiti da quella cinese e, con minore frequenza, da comunità dell’Africa subsahariana o del subcontinente indiano.
Queste percezioni non sempre rispecchiano i dati demografici, ma sono influenzate da fattori sociali e culturali: la prossimità nei quartieri, la visibilità nei contesti pubblici, la narrazione mediatica. Le comunità più “visibili” sono spesso anche quelle più esposte a stereotipi e discriminazioni. Cambiare questa prospettiva significa riconoscere la pluralità delle storie e costruire nuove narrazioni: più accurate, più sfumate, più capaci di riflettere la complessità della società in cui viviamo.
A contatto con la diversità
Il contatto quotidiano con persone di origini diverse è un fattore chiave per ridurre le distanze, sviluppare familiarità e rafforzare atteggiamenti inclusivi. Secondo l’indagine, il 38% del campione dichiara di avere contatti frequenti con persone con background etnico-culturali differenti; il 35% afferma di incontrarle occasionalmente, mentre il 23% riferisce contatti rari o assenti.
L’esposizione cambia anche in base al contesto lavorativo. Tra chi non ha un’occupazione, la percentuale di chi ha pochi contatti sale al 27%. Al contrario, chi lavora — soprattutto in ambito urbano — è più spesso a contatto con la diversità etnico-culturale. Il luogo di lavoro, quindi, può diventare uno spazio fondamentale per generare relazioni, conoscenza reciproca, collaborazione.
Riconoscere le discriminazioni
Non tutte le forme di discriminazione vengono percepite allo stesso modo. Episodi espliciti — come insulti razzisti legati all’origine o all’aspetto fisico — vengono riconosciuti dalla maggior parte delle persone intervistate. Ma in altri casi, più sottili, il riconoscimento si fa più incerto.
Sette persone su dieci considerano discriminatorio il gesto di una famiglia che decide di ritirare il proprio figlio da una scuola perché ci sono “troppi bambini stranieri”. Una percentuale più bassa, il 62%, ritiene offensiva una battuta sull’italiano parlato da una persona con un background migratorio, anche se tra le persone più giovani il dato sale al 77%.
Questi risultati suggeriscono che le microaggressioni e i messaggi impliciti restano spesso invisibili. Eppure, è proprio in queste pieghe del linguaggio e dei comportamenti quotidiani che si annidano le esclusioni più difficili da nominare. Serve più consapevolezza, più ascolto, più formazione. Non solo per evitare il danno, ma per costruire ambienti accoglienti.
Dalle percezioni alla cultura organizzativa
I risultati dell’indagine SWG parlano chiaro: la percezione sociale della diversità influisce anche sulla cultura organizzativa. I bias legati all’origine etnico-culturale possono condizionare l’accesso al lavoro, le valutazioni, la qualità delle relazioni e le opportunità di crescita. Per questo è importante che la valorizzazione della pluralità diventi parte integrante della strategia aziendale.
Non basta “includere”: occorre costruire le condizioni perché ogni persona possa contribuire in modo pieno e riconosciuto.
Formazione continua, codici di condotta chiari, accountability diffusa, attenzione al linguaggio e all’equità dei processi: questi sono gli strumenti per generare fiducia, collaborazione, senso di appartenenza. Secondo ricerche internazionali, team eterogenei e inclusivi prendono decisioni migliori, innovano di più e affrontano meglio le sfide del mercato in continuo cambiamento.
Il potenziale è enorme. Colmare il divario occupazionale tra persone con background etnico-culturale e il resto della popolazione potrebbe generare — secondo lo studio “Ethnocultural minorities in Europe: A potential triple win” (2024) di McKinsey & Company — fino a 120 miliardi di euro di PIL, 70 miliardi in salari e contribuire a coprire un quarto dei posti vacanti in Europa. Ma per raggiungere questi risultati è necessario un lavoro di sistema: abbattere le barriere di accesso, migliorare la qualità dell’inclusione, garantire rappresentanza e opportunità lungo tutta la carriera.
Uno sguardo avanti
L’indagine dell’Osservatorio D è il primo passo di un percorso più ampio promosso da Valore D, che esplora da vicino l’esperienza di persone con backrgound migratorio e di seconde/nuove generazioni nei luoghi di lavoro. Il prossimo appuntamento è fissato per il 4 giugno 2024 con la pubblicazione della ricerca “Multiculturalità al lavoro: dati e storie dal mondo aziendale” – un’indagine che mette al centro vissuti, numeri e riflessioni sul ruolo della diversità culturale nelle organizzazioni italiane.
Per costruire contesti più equi, servono dati, consapevolezza e strumenti. Ma serve anche — e forse prima di tutto — cambiare lo sguardo: riconoscere la complessità, ascoltare le storie, dare valore a ciò che già abita i nostri spazi. Perché la multiculturalità non è un’eccezione: è la nostra realtà quotidiana.