Abilismo interiorizzato: cos’è e come si manifesta nel lavoro

Ti è mai capitato di non chiedere qualcosa – un giorno di smart working, una pausa, un affiancamento – temendo di apparire una persona esigente, problematica, inadeguata?

Per molte persone con disabilità, neurodivergenze o altre condizioni croniche, questa rinuncia non è una situazione isolata, ma una strategia di sopravvivenza.

È il risultato di anni vissuti in ambienti che normalizzano la fatica, banalizzano il dolore, esaltano l’adattamento. Ambienti che, anche quando si dichiarano inclusivi, non sempre autorizzano a esserlo davvero. Questa dinamica ha un nome: abilismo interiorizzato.
Una forma profonda di auto-limitazione, spesso invisibile, che porta a interiorizzare i messaggi discriminatori della cultura abilista e ad adattarsi a essi, anche a proprio discapito.

Cos’è l’abilismo interiorizzato (e perché è difficile riconoscerlo)

Il termine deriva dalla teoria dell’oppressione interiorizzata, concettualizzata da autori come Frantz Fanon e Paulo Freire: si tratta di un meccanismo psicologico e sociale che porta le persone appartenenti a un gruppo discriminato a riprodurre su sé stesse gli stereotipi, le colpevolizzazioni e le esclusioni che hanno assorbito nel tempo.

Nel suo TEDx Disabilità invisibili o invisibilizzate?, Gaia Presotto definisce così l’abilismo interiorizzato:

“L’abilismo si dice interiorizzato quando questi meccanismi di esclusione vengono messi in atto, quasi come auto-sabotaggio, direttamente dalle persone che una disabilità la vivono.”

Tutto questo si traduce spesso in un dialogo interno silenzioso:

  • “Se prendo le pastiglie in ufficio, chissà cosa penseranno!”
  • “Oggi avrei bisogno di riposare ma non voglio sembrare scansafatiche.”
  • “Non sono abbastanza malata per chiedere questi supporti.”
  • “Se da fuori non si vede nulla non posso aspettarmi che le persone comprendano la mia situazione e siano gentili con me.”

A questi pensieri seguono spesso comportamenti altrettanto silenziosi: assecondare richieste anche quando si è allo stremo delle energie, sforzarsi di apparire “al 100%”, evitare attività per paura di non essere capiti, o scegliere di non nominare la propria condizione — che si tratti di disabilità, neurodivergenza o una condizione cronica — per timore del giudizio o dell’incomprensione.

È una forma di autocensura continua, che nasce non da insicurezza personale, ma da esperienze ripetute di non ascolto, di minimizzazione, di normatività imposta.

Spesso, chi vive tutto questo non ha nemmeno la possibilità di nominarlo. Perché manca il linguaggio, lo spazio di ascolto, o semplicemente il permesso di raccontarsi senza il filtro della performance: cioè senza dover apparire forte ed “esemplare”.

L’attivista Stella Young ha chiamato questo meccanismo inspiration porn: l’uso delle esperienze delle persone disabili come fonte di ispirazione per chi non lo è, spesso a scapito della loro complessità. I’m not your inspiration, thank you very much, diceva Young. Perché non tutto deve servire a insegnare qualcosa. A volte, esprimersi è già sufficiente.

Come si manifesta nel lavoro: il costo nascosto dell’adattamento

Sul lavoro, l’abilismo interiorizzato non si manifesta con gesti plateali. Si riconosce nelle rinunce silenziose, nei limiti che ci si autoimpone, nella convinzione che chiedere un accomodamento sia un favore, non un diritto.

Non si parla della propria condizione, per paura di sembrare fragili.
Non si segnala un problema, per timore di disturbare.
Si evita di nominare la disabilità, per non rompere l’equilibrio.

A volte, l’abilismo interiorizzato assume forme ancora più sottili: come quando si cerca di distanziarsi da altre persone con disabilità, per paura che l’identificazione collettiva aggravi lo stigma. Oppure quando si sente il bisogno di mostrare di “funzionare meglio”, per non essere assimilati a chi ha bisogni più evidenti o diversi.

Anche questi sono effetti di un contesto che, anziché riconoscere la varietà dei corpi e delle modalità, impone una scala invisibile di accettabilità.

Sono tutti meccanismi sottili, ma faticosi: richiedono una continua sorveglianza su sé stessi, una modulazione dei propri bisogni, un dispendio di energia invisibile ma reale.

E, proprio perché invisibile, spesso passa inosservato anche alle organizzazioni che si definiscono inclusive.

Ma nessuna policy può bastare, se il contesto non legittima pienamente la presenza e la voce delle persone con disabilità, e non rende normale il diritto di chiedere.

Un problema culturale, non solo personale

L’abilismo interiorizzato non è una fragilità individuale, né una “mancanza di autostima”.
È il risultato di un contesto culturale, sociale e comunicativo che attribuisce valore e visibilità solo a certi corpi, certe modalità, certe performance.

Il lavoro non fa eccezione.
Spesso, le aziende credono che basti “non escludere attivamente” per dirsi inclusive. Non è così: il reale riconoscimento delle persone con disabilità deve passare dalla costruzione attiva di spazi, linguaggi, pratiche che non le costringano a nascondersi.

Anche il linguaggio abilista – spesso presente in forma implicita – contribuisce a rafforzare l’auto-esclusione. Espressioni come “sei troppo sensibile”, “devi solo impegnarti di più”, “non ti manca nulla per farcela” non sono neutre: trasmettono l’idea che la difficoltà sia un fallimento personale, non una barriera sociale da rimuovere.

È proprio questo lo spostamento che serve: riconoscere che le persone non sono disabili “per natura”, ma vengono disabilitate da un contesto che non prevede i loro corpi, i loro tempi, i loro bisogni.

Quando il linguaggio giudica, banalizza o nega queste differenze, contribuisce ad alimentare l’idea che il problema sia nell’individuo, e non nel sistema.

Cosa possono fare le aziende (e le persone)

Contrastare l’abilismo interiorizzato non significa “convincere le persone con disabilità ad avere più fiducia in sé stesse”. Significa costruire contesti in cui quella fiducia possa nascere, senza dover essere conquistata a fatica.

Questo significa, per esempio, usare un linguaggio aziendale che non infantilizzi né colpevolizzi, normalizzare le richieste di flessibilità, adattamenti o affiancamenti senza trattarle come eccezioni da giustificare, e valorizzare le differenze nei tempi, nei modi e nelle risorse con cui ogni persona lavora.

Vuol dire anche integrare davvero le voci delle persone con disabilità nella definizione delle policy e nella cultura interna, parlare apertamente e positivamente di disabilità, dentro e fuori l’azienda, senza ricadere nell’inspiration porn, ma con la volontà autentica di aprire spazi di condivisione.

E ancora: trattare la disabilità come parte integrante della vita lavorativa, non come una variabile da gestire solo in situazioni eccezionali.

Raccontare storie di successo può aiutare: non per esibire risultati, ma per mostrare il lavoro svolto e l’impegno concreto verso un ambiente realmente attento, accogliente, valorizzante.

Non serve forza: serve spazio

L’abilismo interiorizzato non si combatte con la forza di volontà individuale, ma cambiando le condizioni intorno. A chi lavora nelle organizzazioni spetta un compito preciso: rendere visibili le barriere che non si vedono, dare legittimità ai bisogni che spesso vengono taciuti, accogliere modalità di lavoro e di espressione diverse dallo standard.

Non serve avere tutte le risposte, ma creare spazi dove le persone possano nominare la propria esperienza senza temere di essere giudicate o svalutate.

Un ambiente che valorizza le unicità non si limita a non discriminare: crea spazio. Autorizza. Riconosce. 

Perché la legittimità non andrebbe mai guadagnata. Andrebbe riconosciuta.

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