«Ma non hai accento!»
È una frase che spesso si dice con tono di sorpresa, come fosse un complimento. Di solito se la sentono rivolgere persone che si sono trasferite da una zona all’altra del Paese, portando con sé le sonorità della propria terra, o chi ha un background migratorio e parla italiano con competenza.
La frase, in apparenza innocua, nasconde però un’aspettativa implicita: l’idea che un certo modo di parlare sia “neutro”, giusto, più professionale. E che tutto ciò che se ne discosta sia una deviazione, qualcosa da correggere o, nel migliore dei casi, da superare.
Eppure ogni persona ha un accento. È il riflesso del territorio, delle lingue che ha ascoltato, del contesto culturale in cui è cresciuta: comunica origini e percorsi personali. Nonostante questo, l’accento può veicolare, inconsciamente, una mappa di stereotipi il cui impatto riverbera anche nei contesti professionali.
Accenti e mappe degli stereotipi
La sociolinguistica studia da tempo l’accento come parte integrante dell’identità sociale e la sua capacità di comunicare appartenenze regionali, etniche o di classe. Proprio per questo è spesso caricato di pregiudizi: le persone che parlano con un accento considerato “non standard” nel loro contesto di riferimento possono essere percepite come meno professionali, meno credibili, meno adatte a certi ruoli – pur a parità di competenze.
Questo pregiudizio è retaggio della Standard Language Ideology (ideologia della lingua standard), secondo cui esisterebbe un solo modo “corretto” e “neutro” di parlare. Un’ideologia che considera il linguaggio delle persone di gruppi dominanti come la norma, relegando tutte le altre varianti linguistiche a “difetti” da correggere o a simpatiche eccezioni.
È una norma implicita modellata sul linguaggio delle classi sociali dominanti, che spesso coincide con il centro geografico, economico o culturale di un Paese. Le persone che si discostano da questo standard diventano target di una percezione pregiudizievole, la discriminazione linguistica.
La discriminazione linguistica: linguicismo e razzismo sonoro
Di discriminazione linguistica si parla poco, eppure è ampiamente documentata in ambito accademico e definita in molti modi: glottofobia, razzismo linguistico, profilazione linguistica, bullismo legato all’accento, stereotipia linguistica, linguicismo.
Linguicismo, in particolare, è un termine coniato negli anni Ottanta dalla linguista finlandese Tove Skutnabb-Kangas per indicare il trattamento discriminatorio basato sulla lingua, in particolare nei confronti delle lingue minoritarie.
Quando il pregiudizio si attiva specificamente in risposta all’accento — ovvero alla “sonorità” della voce di chi parla — si parla di razzismo sonoro (accentism o accent bias in inglese).
In tutti i casi, ciò che viene penalizzato non è solo la lingua, ma l’identità culturale e sociale che essa veicola.
Lo dimostrano anche le esperienze raccontate dal progetto europeo CIRCE – Counteracting accent discrimination practices in education, che raccoglie e analizza autobiografie linguistiche di studenti in tutta Italia, documentando episodi di discriminazione legata all’accento in contesti scolastici e sociali. L’accento, dicono molte testimonianze, può diventare un “macigno” identitario e influenzare negativamente le opportunità e il benessere delle persone.
La linguista Silvia Calamai dell’Università di Siena, tra le promotrici del progetto, sottolinea quanto ancora oggi l’accento regionale o straniero venga percepito come una barriera sociale o professionale, e quante risorse vengano impiegate dalle persone per nascondere o correggere la propria inflessione.
Nello studio del 2020 “Fregati dall’accento!”. Lo stereotipo etnico e linguistico nei contesti scolastici (Calamai, S., Nodari, R., & Galatà, V.), si sottolinea come la discriminazione linguistica sia un fenomeno che si affianca ad altre forme di discriminazione più note – politica, razziale, etnica, religiosa, sessuale:
“Il razzismo, il pregiudizio e lo stigma viaggiano infatti anche attraverso le onde sonore: giudichiamo ed etichettiamo voci, e sulla voce costruiamo immagini e stereotipi mentali.”
La discriminazione linguistica opera quindi in modo subdolo e persistente, e si manifesta già nei primi anni di scuola.
I bias iniziano presto: accento e performance scolastica
Una ricerca del 2022 pubblicata sulla rivista di linguistica Lingua (Linguistic insecurity and discrimination among Italian school students) ha analizzato l’impatto dell’accento nella valutazione scolastica in Italia, mostrando che i bambini con accenti marcati – regionali o stranieri – vengono giudicati in modo più negativo dai loro insegnanti, pur a parità di abilità o preparazione.
La ricerca parla di discriminazione sottile, spesso fraintesa, dove l’accento diventa una “carta d’identità sonora” che orienta giudizi sociali. Il messaggio è chiaro: la voce con cui si cresce può diventare un ostacolo invisibile.
Ciò che accade a scuola, dove l’accento modella aspettative e giudizi, si riflette in modo ancora più potente negli ambiti professionali.
Discriminazioni linguistiche nei contesti professionali
Studi internazionali condotti nel campo delle risorse umane dimostrano che l’accento può influenzare le decisioni di selezione, promozione e valutazione delle performance.
Una meta-analisi pubblicata a inizio 2025 su International Journal of Selection and Assessment ha esaminato i bias nei colloqui di lavoro legati all’accento: i risultati dicono che le persone con accento non standard ricevono valutazioni significativamente più basse in termini di competenza, calore umano e idoneità all’assunzione, rispetto a chi parla con un accento considerato standard.
Il pregiudizio si accentua nel caso delle donne con accento non standard, e non dipende tanto dalla comprensibilità del parlato, quanto dagli stereotipi legati alla percezione sociale dell’accento.
In Italia, i pregiudizi sugli accenti seguono una geografia antica e ancora attiva: l’accento del Nord viene spesso associato a efficienza e serietà, quello del Sud a calore umano, ma anche a minor preparazione. Gli accenti stranieri, invece, possono suscitare diffidenza o curiosità esotizzante, ma raramente vengono riconosciuti come parte legittima della lingua italiana contemporanea.
L’impatto reale nei contesti lavorativi
Nel contesto lavorativo, le discriminazioni linguistiche si muovono su diversi terreni.
Il primo giudizio sulla competenza di una persona si forma nei primi minuti di conversazione (secondo una ricerca di The Decision Lab basterebbero pochi secondi): il colloquio di lavoro, quindi, è un primo campo di prova per i bias linguistici. Questi continuano a manifestarsi anche dopo, nella quotidianità della vita in team, durante le riunioni di lavoro o le sessioni di brainstorming, influenzando la qualità delle interazioni e le opportunità di crescita.
Anche il momento del feedback e della valutazione professionale non è immune da bias linguistici. Secondo la già citata meta-analisi dell’International Journal of Selection and Assessment, chi parla con un accento non standard tende a ricevere giudizi meno favorevoli in termini di leadership, capacità di relazione e persino affidabilità.
Tutto questo ha conseguenze tangibili sulle carriere: le persone con un accento marcato possono sentirsi costrette a “neutralizzarlo” per essere prese sul serio, adattando la propria voce a standard non scritti ma ben riconoscibili. Una forma di code-switching linguistico che richiede fatica emotiva e che può generare senso di esclusione.
Il messaggio implicito che si interiorizza è che il proprio modo di parlare sia un limite, qualcosa di cui vergognarsi o da correggere.
Questa percezione può portare a una costante insicurezza linguistica, innescando un circolo vizioso: la persona parla meno, perde sicurezza, appare meno competente, rinforzando ulteriormente il bias iniziale. Rompere questo ciclo è fondamentale per garantire inclusione e pari opportunità.
Verso un ascolto più equo: come cambiare rotta?
Contrastare i bias linguistici significa prima di tutto riconoscere la pluralità di voci come una risorsa. Le aziende possono fare molto per spezzare questo meccanismo strutturale. Il primo passo è promuovere un ascolto più equo, passando per diversi canali:
- Formazione e consapevolezza: educare chi seleziona o valuta alla presenza di bias linguistici, attraverso workshop e strumenti concreti.
- Criteri oggettivi: definire parametri di valutazione trasparenti e misurabili, basati su competenze e risultati, non su impressioni legate all’accento.
- Leadership inclusiva: normalizzare la pluralità linguistica nei team e incoraggiare una cultura del parlare autentico, senza timori di ‘non sembrare professionali’.
- Politiche chiare: includere la diversità linguistica nelle strategie DEI, riconoscendola come risorsa.
Serve quindi un cambiamento culturale che parta da alcune domande:
- Quali modi di parlare sono valorizzati nella nostra organizzazione?
- Cosa riteniamo “professionale”? E da dove viene questa idea?
- Come possiamo creare spazi dove tutte le voci siano ascoltate con la stessa legittimità?
L’accento non è un difetto, ma un segno di storia, esperienza, identità. Cambiare prospettiva non è solo una questione di equità, ma di intelligenza organizzativa: ogni voce che si sente libera di parlare, arricchisce il pensiero collettivo.