Fatica da inclusività: quando il lavoro sul cambiamento pesa solo su chi subisce il sistema

“Sei la prima donna in questo ruolo, dovresti esserne orgogliosa!”
“Sei un esempio per la tua comunità.”
“Siamo così felici di avere finalmente un collega come te nel team.”

Frasi come queste, dette con convinzione e a volte con ammirazione, possono nascondere un sottotesto impegnativo. Essere “l’unica” o “il primo” in un contesto non significa solo occupare una posizione: comporta ritrovarsi, volenti o nolenti, al centro di un’attenzione particolare. Ci si accorge presto che le proprie azioni vengono lette alla luce di ciò che si rappresenta, più che del contributo concreto che si porta.

A volte questa visibilità è stimolante, altre volte si trasforma in un carico silenzioso. Ogni risultato sembra confermare l’idea che il cambiamento sia in atto, mentre ogni inciampo rischia di alimentare pregiudizi. Le persone che portano questo “carico di unicità”, finiscono per muoversi in uno spazio dove la spontaneità è sacrificata alla necessità di “tenere alta la bandiera”, anche quando si vorrebbe semplicemente essere lasciate libere di crescere, sbagliare e imparare.

In ambito professionale, questo peso permea i rapporti con colleghe e colleghi, le riunioni, la distribuzione dei compiti. È una presenza costante che può dare un senso di orgoglio, ma che, se non riconosciuta e condivisa, rischia di diventare un ostacolo invisibile al benessere e alla partecipazione autentica.

Questa dinamica è spesso l’espressione di una pratica diffusa, radicata nelle organizzazioni, che ha un nome preciso e un impatto profondo sul modo in cui i temi inerenti alla DEI (Diversity, Equity, Inclusion) vengono vissuti ogni giorno: stiamo parlando del tokenism.

Tokenism: più visibilità, meno voce

Il termine tokenism, introdotto dalla sociologa Rosabeth Moss Kanter nel suo libro Men and Women of the Corporation del 1977 (New York: Basic Books), descrive una pratica tanto diffusa quanto sottovalutata: inserire nel team una o poche persone appartenenti a gruppi sottorappresentati come “buona pratica” di diversità e inclusione, senza però garantire loro reali possibilità di incidere. È una presenza che resta di facciata, utile a mostrare un’immagine virtuosa dell’organizzazione ma spesso scollegata da un cambiamento sostanziale.

Nella vita aziendale il tokenism può assumere molte forme: un volto sempre in prima fila nelle foto istituzionali, la partecipazione “obbligata” a panel e interviste sul tema della diversità, l’essere consultate solo quando la propria esperienza personale può servire come esempio (o, peggio, come ispirazione). 

In apparenza è riconoscimento, in realtà è un meccanismo che può isolare, ridurre la complessità delle persone a un solo aspetto della loro identità e impedire che la loro voce trovi spazio nelle decisioni che contano.

Questa dinamica è pericolosa perché non nega la presenza, ma ne svuota il senso, trasformando l’inclusione in una vetrina: visibilità sì, ma senza strumenti, potere e alleanze per trasformare davvero il contesto in cui si lavora.

La fatica da inclusività: il lavoro invisibile di chi “rappresenta”

Essere percepite come la “voce” di un’intera comunità comporta un carico che raramente viene nominato e riconosciuto. 

È la fatica da inclusività, che in ambito anglosassone viene spesso chiamata DEI fatigue: quella somma di energie emotive, cognitive e relazionali che le persone appartenenti a gruppi sottorappresentati o marginalizzati impiegano quotidianamente per sostenere le iniziative di diversità e inclusione in azienda.

Si manifesta in situazioni quotidiane, come per esempio:

  • diventare il riferimento implicito in ogni decisione legata alla propria identità;
  • ricevere domande personali che oltrepassano il confine della vita privata;
  • essere chiamate a spiegare, educare o correggere colleghi e colleghe, spesso senza preavviso;
  • fare advocacy e costruire ponti mentre si è, al tempo stesso, parte vulnerabile del sistema che si vorrebbe trasformare.

Molte ricerche danno un nome a questa condizione: cultural taxation, minority tax, lavoro emotivo non riconosciuto. Cambia l’etichetta, ma non la sostanza: si tratta di un impegno aggiuntivo, non retribuito, che si somma al lavoro “ufficiale” e che può accelerare stress, senso di isolamento e burnout. 

Il problema non è la volontà di contribuire, ma il fatto che questo contributo venga dato per scontato, come se fosse una responsabilità naturale di chi si trova in una condizione di sottorappresentazione o minorizzazione.

Il rischio di una DEI performativa

Quando le politiche aziendali di diversità e inclusione restano confinate a un piano estetico o comunicativo, il rischio è quello di trasformarle in una facciata rassicurante, più utile a proteggere la reputazione che a generare cambiamento reale. 

È quello che accade quando le iniziative si riducono a slogan, campagne patinate o eventi spot, senza essere sostenute da un lavoro strutturale su processi, poteri e cultura organizzativa.

La DEI performativa si riconosce da segnali ricorrenti:

  • le stesse persone marginalizzate incaricate, sempre e solo loro, di guidare o animare le attività legate all’inclusione;
  • un’attenzione quasi esclusiva alla rappresentazione visiva (foto, testimonianze, storytelling) e poca cura per le condizioni concrete di lavoro;
  • iniziative pensate “per obbligo” o “per immagine” che non lasciano traccia nella vita quotidiana delle persone;
  • progetti di breve durata, lanciati con entusiasmo ma destinati a spegnersi una volta passata l’onda mediatica.

In questo scenario, il tokenism diventa un alibi: basta mostrare che l’azienda “contiene” diversità per evitare di affrontare le barriere sistemiche che ancora impediscono una partecipazione piena e sicura. 

Ma la fiducia e il senso di appartenenza non si costruiscono solo con gesti simbolici: nascono quando le persone vedono che le parole sono accompagnate da risorse, responsabilità condivise e impegni a lungo termine.

Ridistribuire il carico del cambiamento

Le pratiche di DEI autentiche non possono poggiare sulle spalle di poche persone, e soprattutto non possono essere affidate solo a chi vive direttamente situazioni di discriminazione o sottorappresentazione. 

Per diventare un obiettivo reale, deve essere un impegno condiviso, che attraversa tutti i livelli dell’organizzazione.

Per ridistribuire davvero il carico del cambiamento, un’organizzazione può:

  • Coinvolgere attivamente i vertici aziendali, integrando la DEI nelle strategie e nei processi decisionali, non limitandosi a un ruolo di patrocinio.
  • Mettere in collaborazione il team comunicazione e quello HR, affinché traducano i valori dichiarati in pratiche quotidiane: dall’assunzione alla gestione dei conflitti, dalla formazione all’avanzamento di carriera.
  • Allocare risorse adeguate, in termini di budget, tempo e competenze, per sostenere iniziative di inclusione a lungo termine.
  • Garantire formazione continua, non episodica, per tutti i livelli dell’organizzazione.
  • Creare spazi di ascolto sicuri, in cui le persone possano autodeterminarsi ed esprimersi senza timore di ripercussioni. 
  • Costruire alleanze autentiche, in cui tutte le persone del team si impegnino attivamente a rimuovere ostacoli e bias.

Solo così l’inclusione smette di essere un dovere silenzioso per chi “rappresenta” una minoranza e diventa una responsabilità collettiva. È in questo passaggio – dal simbolo alla struttura, dalla vetrina alla sostanza – che un’organizzazione può davvero trasformarsi e costruire un luogo di lavoro in cui nessuna persona è un’eccezione da giustificare, ma tutte sono parte integrante del funzionamento e del successo del team.

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