Diversità religiosa al lavoro: gestire con rispetto la libertà di culto in azienda 

Quando pensiamo alla diversità in azienda, ci viene subito in mente la convivenza tra le differenze di genere, di età o di condizioni di disabilità nei nostri team. Più raramente ci soffermiamo sulla dimensione religiosa, confinata nella sfera privata e meno riconosciuta come parte della vita professionale. 

Eppure, la religione – o la scelta consapevole di non averne una – è un’espressione individuale che accompagna le persone nei luoghi di lavoro tanto quanto le altre componenti della loro identità. 

Il fatto che i nostri team di lavoro siano sempre più multiculturali, rende evidente quanto la pluralità religiosa sia già presente nelle nostre organizzazioni. Si manifesta nei ritmi quotidiani, nei calendari delle festività, nelle scelte alimentari e in quelle di abbigliamento e, a volte, anche nella necessità di spazi di raccoglimento o di silenzio.

Alcune persone potrebbero obiettare che i luoghi di lavoro dovrebbero restare neutri e non occuparsi di religione e spiritualità. Ma neutralità non significa cancellare le differenze: significa creare un ambiente in cui nessuna condizione prevale sulle altre e tutte possono convivere senza svantaggi.

Ignorare la realtà della diversità religiosa non equivale a renderla neutrale, ma rischia di trasformarla in un tabù: un terreno fertile per incomprensioni, microaggressioni e squilibri, che pesano soprattutto su chi appartiene a fedi minoritarie. Affrontarla con rispetto, invece, significa inserire la libertà di culto all’interno delle politiche di DEI (diversità, equità e inclusione), riconoscendola come parte della diversità culturale che già abita le aziende.

Libertà religiosa: dal principio costituzionale alla vita aziendale

La libertà religiosa è un diritto fondamentale che riguarda sia la dimensione interiore (credere, non credere, cambiare credo) sia la possibilità di esprimere pubblicamente le proprie convinzioni, attraverso pratiche o simboli. Non va letta solo come diritto a non subire discriminazioni, ma anche a quello di vivere la propria identità spirituale senza doverla nascondere.

L’articolo 19 della Costituzione Italiana garantisce a tutte le persone il diritto di professare liberamente la propria fede, mentre l’articolo 3 impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano l’uguaglianza, comprese le differenze legate alla religione. Due principi che offrono una base solida per riconoscere la diversità religiosa anche come parte della vita professionale.

Come si traduce questo principio nella vita delle aziende? 

Secondo il report IPSOS Global Religion 2023, il 70% degli italiani si identifica con una religione, prevalentemente cattolica (61%), mentre quasi un terzo dichiara di non appartenere a nessuna fede. Il 23% frequenta un luogo di culto – una chiesa, un tempio o una moschea – almeno una volta al mese o più spesso.

A questo quadro si aggiungono i dati della ricerca Multiculturalità al lavoro curata dal Centro Studi di Valore D, che ci parla di una presenza significativa del pluralismo religioso nelle organizzazioni italiane. 

Citando le stime del 30º rapporto sulle migrazioni di Fondazione ISMU (2024), il report ci dice che la popolazione straniera residente in Italia – oltre 5,2 milioni di persone – presenta un mosaico religioso articolato: quasi il 30% si riconosce nell’Islam (circa 1,6 milioni di fedeli), un altro 29,1% nella fede cristiana ortodossa (1,5 milioni, soprattutto persone rumene e ucraine), mentre i cattolici sono il 17% (894mila persone, con forte presenza filippina, albanese e peruviana). 

Quasi il 10% delle persone intervistate si dichiara non religiosa (508 mila persone), mentre altri gruppi, come i copti, i buddhisti, gli induisti e i sikh, contribuiscono a rendere il quadro ancora più sfaccettato. 

Nel complesso, la maggioranza assoluta della popolazione straniera in Italia continua a essere cristiana, ma per la prima volta questa incidenza è scesa sotto la soglia del 53%.

Grafico a torta che descrive la suddivisione delle persone residenti in Italia per appartenenza religiosa. La fonte è l'elaborazione di Valore D su dati ISMU 2025. La fetta più grande della torta, 53%, va alla religione cristiana. Il 29.8% alla religione musulmana. Seguono le persone che non seguono alcuna religione (9,7%), le buddiste (3,3%), le induiste (2,1%) e infine altre religioni (2,1%)."

Nonostante la pluralità del quadro, nelle aziende italiane la libertà religiosa viene ancora affrontata in modo frammentario. 

Spesso non esistono policy esplicite, e il rispetto delle pratiche individuali dipende dalla sensibilità del management o dalla capacità delle persone di farsi portavoce delle proprie esigenze. In alcuni casi, questo significa vivere la fede in silenzio, rinunciando a pratiche importanti per non sembrare “fuori posto”.

Sfide e bias da affrontare

Il primo passo per accogliere la diversità religiosa in azienda è imparare a riconoscere le sfide che possono emergere quando pratiche, calendari e abitudini si incontrano. Non sempre queste difficoltà si manifestano in forme esplicite: spesso si tratta di bias sottili o inconsapevoli, che però incidono sulla qualità della vita lavorativa.

Un esempio ricorrente riguarda la pianificazione delle attività: fissare riunioni o eventi aziendali in concomitanza con festività religiose diverse da quelle cattoliche può creare disagio, così come organizzare pranzi di team senza tenere conto delle diverse regole alimentari. Anche l’abbigliamento legato al proprio credo può diventare terreno di incomprensioni, soprattutto quando viene percepito come “fuori contesto” o, peggio, come segnale di scarsa professionalità.

La già citata ricerca Multiculturalità al lavoro mostra come l’Islam sia spesso la religione più esposta a stereotipi, con pregiudizi che possono tradursi in microaggressioni quotidiane o in un eccesso di curiosità invadente.

In realtà, nessuna fede è immune da questi meccanismi: qualunque persona può trovarsi a dover giustificare le proprie scelte spirituali, che si tratti di pregare, digiunare, meditare o semplicemente chiedere tempo per pratiche di raccoglimento.

Riconoscere questo aspetto non mina la laicità degli spazi di lavoro, anzi: la rafforza, perché impedisce che alcune pratiche restino invisibili e quindi più vulnerabili a pregiudizi e svantaggi.

Il dibattito europeo

Se la Costituzione riconosce la libertà religiosa come un diritto universale, il mondo del lavoro deve interrogarsi su come tradurlo in pratiche concrete. A livello europeo, il dibattito ruota attorno a due concetti chiave: neutralità e il cosiddetto “accomodamento ragionevole”.

Alcune aziende invocano la neutralità per vietare simboli religiosi visibili sul posto di lavoro, come lo hijab, la kippah o il crocifisso. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che questo è possibile, ma solo in condizioni molto precise: il divieto deve essere giustificato, proporzionato, applicato in modo coerente e non discriminatorio.

In altre parole, non basta invocare la “neutralità” per escludere le espressioni religiose dal lavoro. Le aziende devono dimostrare che le eventuali limitazioni siano davvero necessarie e rispettose di tutte le identità.

Un’alternativa più inclusiva è quella che in gergo giuridico è chiamata accomodamento ragionevole: un principio che invita le aziende a cercare soluzioni concrete, dove possibile, per conciliare esigenze operative e diritti individuali. Può voler dire, per esempio, permettere pause brevi per la preghiera, introdurre menù alternativi in mensa, non imporre restrizioni all’abbigliamento nei limiti della sicurezza o prevedere spazi di raccoglimento. 

Non si tratta di privilegi, ma di piccoli aggiustamenti che rendono reale la promessa di equità.

In questo campo, l’Italia ha ancora ampi margini di crescita: mancano linee guida chiare e molto dipende dalla sensibilità delle singole aziende. Ma proprio per questo, il mondo del lavoro può diventare un motore di cambiamento, traducendo i principi costituzionali in pratiche che rafforzano il senso di appartenenza e valorizzano ogni persona.

Buone pratiche aziendali emerse dalla ricerca

Se la libertà di culto in azienda non deve essere né invisibilizzata né trasformata in un terreno di conflitto, il passo successivo è individuare strumenti pratici per gestirla con rispetto. 

La ricerca Multiculturalità al lavoro offre di nuovo spunti utili ed elenca alcune buone pratiche già adottate da organizzazioni che hanno scelto di affrontare la diversità religiosa come parte integrante delle proprie strategie di inclusione.

  • Calendari inclusivi: Diverse aziende hanno inserito nei planning interni un calendario che tenga conto delle principali festività religiose per evitare sovrapposizioni involontarie con scadenze, riunioni o altri eventi aziendali. Questo aiuta a riconoscere l’esistenza delle varie ricorrenze e a ricordare che possono avere un impatto concreto sulla disponibilità delle persone.
  • Spazi di raccoglimento: Alcune aziende hanno introdotto stanze del silenzio o spazi multifunzionali aperti a tutte le persone del team, credenti e non, per momenti di preghiera, meditazione o semplicemente pausa. Questo approccio non introduce divisioni, ma offre a ciascuno un luogo neutrale per rigenerarsi.
  • Formazione interculturale: Investire in percorsi dedicati a manager e team HR aiuta a riconoscere i bias legati alla religione e a prevenirli. La formazione non serve a fornire regole rigide, ma a creare consapevolezza e a dare strumenti di dialogo quando emergono esigenze diverse.
  • Comunicazione rispettosa: Anche il linguaggio conta: evitare battute stereotipate o riferimenti esclusivi a un’unica tradizione religiosa è il punto di partenza per costruire un clima accogliente e sereno. Inoltre, la pubblicazione di linee guida interne sulla comunicazione inclusiva con prospettiva policulturale può aiutare a diffondere le buone abitudini in modo più trasversale.

Tra i risultati della ricerca ci sono anche quelli che dimostrano l’impatto concreto del riconoscere la pluralità culturale e le diverse espressioni di fede: una maggiore motivazionedelle persone del team, un coinvolgimento più alto e una solida capacità di attrarre talenti in un mercato del lavoro sempre più competitivo.

Il legame tra inclusione e reputazione è evidente: aziende percepite come spazi aperti alla diversità, anche religiosa, si distinguono come luoghi desiderabili in cui lavorare. Questa immagine positiva favorisce l’employer branding, riduce i costi di selezione e contribuisce a trattenere le persone già presenti, che si sentono riconosciute e rispettate nelle proprie identità.

Non si tratta, quindi, di introdurre complessità aggiuntive, ma di prevenire rischi di esclusione che generano fatica, assenze e turnover. 

Al contrario, quando la ricchezza di prospettive – diverse per cultura, fede o visione del mondo – viene valorizzata, la pluralità culturale si trasforma in una leva strategica di creatività e adattabilità. È qui che la diversità religiosa smette di essere invisibile e diventa parte del sistema di valori dell’azienda.

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