Oltre gli stereotipi anagrafici: le sfide (e le opportunità) della longevità attiva

C’è una scena che si sta ripetendo, anche in questo momento, in molti luoghi di lavoro italiani: in uno spazio condiviso – che sia ufficio, laboratorio o linea di produzione – collaborano persone che hanno vissuto l’inizio dell’era digitale e altre che non ricordano un mondo senza smartphone. Si osservano, si ascoltano, a volte si fraintendono, ma insieme trovano un equilibrio che permette alle idee di circolare.

Queste scene quotidiane raccontano meglio di tante statistiche la trasformazione che stiamo vivendo. La popolazione invecchia, la vita professionale si allunga, e nelle aziende convivono età e prospettive che fino a pochi anni fa avrebbero avuto più difficoltà a incontrarsi. È un cambiamento che sta ridisegnando la cultura del lavoro: non solo come lo organizziamo, ma come lo immaginiamo.

Parlare oggi di longevità attiva significa interrogarsi su questo nuovo equilibrio. Come possiamo continuare a sentirci parte del mondo del lavoro, mentre le carriere diventano sempre più lunghe e meno lineari? Come possono le organizzazioni sostenere persone che attraversano età, ruoli e motivazioni diverse?

La longevità non è soltanto il risultato di un progresso medico o sociale, ma un modo diverso di pensare il tempo, il contributo di ciascuno e la qualità del lavoro nel suo insieme.

Un contesto demografico che cambia il lavoro

Il cambiamento demografico in corso è profondo, ma spesso passa inosservato, come una marea che si alza lentamente. Secondo l’analisi condotta da Confesercenti su dati INPS, ISTAT e camerali, nel 2024 l’età media è salita a 44,2 anni, oltre due in più rispetto al 2019 (42 anni). Nel 2050 la percentuale di persone over 65 in Italia potrebbe essere circa il 34,5%, cioè poco più di un terzo della popolazione totale (ISTAT, Rapporto Annuale, 2025).

In più, il Rapporto Annuale Istat 2025 mette in luce la grande precarietà nell’ingresso nel mondo lavorativo: le persone più giovani continuano a sperimentare la maggiore vulnerabilità nel mercato del lavoro, con una quota di contratti a termine (28,1%) che rimane di gran lunga superiore alla media complessiva di tutte le fasce d’età (11,6%).

Il mercato del lavoro è dunque segnato da un doppio squilibrio: precarietà all’ingresso e permanenza prolungata in età più alta. Una dinamica che produce conseguenze che sempre più aziende iniziano a percepire chiaramente:

  • mancanza di competenze tecniche in alcuni settori
  • difficoltà nel ricambio generazionale
  • necessità di mantenere nel tempo la produttività e il benessere.

La ricerca Oltre le generazioni presentata da Valore D a marzo 2024 aggiunge strati a questa complessità. In ambito professionale oggi convivono quattro generazioni – Baby Boomer, Generazione X, Millennials e Gen Z – con modi diversi di intendere il lavoro, la carriera e la realizzazione personale.

Mentre il mercato del lavoro diventa sempre più multigenerazionale, la cultura organizzativa fatica a liberarsi dai suoi automatismi. In molti contesti continua a predominare l’ageismo che giudica il valore di una persona in base all’età.

Età che viene letta come un limite, un indicatore di obsolescenza. Dalla ricerca di Valore D, per esempio, emerge che in azienda le persone della generazione Baby Boomer a volte percepiscono di essere un “ostacolo al rinnovamento dei processi”, un “costo da tagliare”, e “un peso di cui liberarsi”.

Eppure, se osserviamo meglio, le organizzazioni che riescono a combinare l’esperienza e l’energia delle diverse età sono anche quelle che mostrano maggiore capacità di adattamento e innovazione. Una visione coerente con le evidenze raccolte dall’OCSE nella ricerca Promoting an Age-Inclusive Workforce (2020).

La longevità attiva, in questa prospettiva, non è un traguardo individuale ma un obiettivo collettivo. È il risultato di un ecosistema che permette a ciascuno di dare il meglio di sé, in ogni fase della vita lavorativa.

Cosa significa per le aziende: la longevità come risorsa strategica

Un contesto come quello appena descritto obbliga a cambiare sguardo. Non si tratta più di “gestire” l’età nei team aziendali, ma di valorizzarla come leva di sostenibilità e di innovazione.

Le aziende che riescono a farlo considerano la vita lavorativa non come una linea retta ma come un percorso che evolve, fatto di tappe, pause e apprendimenti. In questo modello, le competenze non si esauriscono con il tempo ma si trasformano.

Per molte organizzazioni, il passaggio non è semplice. Il linguaggio stesso del lavoro è ancora intriso di una logica della “fase”: si parla di ingresso, crescita, maturità, uscita. Ma la realtà oggi è più sfumata: si può cambiare mestiere a cinquant’anni, avviare un nuovo progetto a sessanta, prendersi una pausa e tornare con competenze nuove.

Strategie di collaborazione oltre le generazioni

Il punto è che nessuna generazione, da sola, può affrontare la complessità del lavoro contemporaneo. La rapidità dei cambiamenti tecnologici, le nuove forme di organizzazione, le aspettative di flessibilità e benessere richiedono competenze, sensibilità e linguaggi diversi. E questi linguaggi, spesso, si trovano già dentro i team che riuniscono persone di età, percorsi e mentalità differenti.

Alcune organizzazioni stanno già traducendo questi principi in pratiche concrete. Ogni realtà lo fa a modo suo, ma le esperienze più efficaci mostrano alcuni elementi comuni che possono guidare il cambiamento:

  • Promuovere il mentoring reciproco.
    Mettere in relazione persone di età diverse non solo per trasmettere conoscenze, ma per scambiarle. Le competenze digitali e linguistiche si intrecciano con le capacità relazionali e la memoria organizzativa, creando percorsi di apprendimento a doppio senso.
  • Costruire team intergenerazionali stabili.
    Non basta inserire persone di età diverse nello stesso gruppo: è necessario che alle stesse vengano riconosciuti ruoli e competenze a prescindere dall’età (altrimenti il rischio è che permangono gerarchie e ruoli tradizionali). Team misti che restano insieme nel medio periodo sviluppano fiducia e abitudini collaborative che favoriscono creatività e innovazione.
  • Integrare l’età nelle politiche di formazione.
    L’upskilling e il reskilling non dovrebbero riguardare solo chi entra nel mondo del lavoro, ma tutte le persone. La formazione continua, se accessibile nei tempi e nei formati, diventa un modo per mantenere curiosità e senso di appartenenza in ogni fase professionale.
  • Coltivare una leadership intergenerazionale.
    Gestire la longevità significa anche saper leggere linguaggi e tempi diversi. Una leadership inclusiva incoraggia la collaborazione tra generazioni, riconosce il contributo di ciascuno e trasforma la diversità d’età in un vantaggio competitivo.
  • Curare il linguaggio e la cultura interna.
    Evitare espressioni che associano l’età alla perdita di valore e promuovere un linguaggio che riconosca l’esperienza come risorsa aiuta a creare un clima di rispetto e di fiducia reciproca.

Quando le organizzazioni riescono a valorizzare queste connessioni, possono migliorare non solo la produttività ma anche la qualità del clima interno: cresce la fiducia, diminuisce il senso di isolamento, aumenta il senso di appartenenza.

La longevità è prima di tutto relazione; lavorare insieme rispettando i tempi di ciascuno fa parte di quel processo più ampio che chiamiamo inclusione. È un concetto che ci chiede di rivedere l’idea stessa di “valore” nel lavoro, non più legata soltanto alla velocità o alla disponibilità, ma alla capacità di contribuire nel tempo, con competenze che maturano e si rinnovano. È un invito a pensare l’organizzazione come un luogo che cresce insieme alle sue persone, anziché misurarne la produttività in base all’età.

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