Microaggressioni sul lavoro (e non solo): come riconoscerle ed evitarle

«Parli molto bene italiano, da dove vieni?»
A volte la conversazione prosegue con un: «Ok, sei nato in Italia, ma di dove sei davvero
Oppure: «Non avevo capito che fossi musulmana, non lo sembri».
Ma anche: «Sei una persona trans? Non si direbbe!»

Frasi come queste sembrano innocue, spesso si dicono con tono amichevole, persino con l’intenzione di fare un complimento. Eppure comunicano qualcosa di diverso: l’idea che una persona sia “fuori posto”, eccezionale rispetto a una norma implicita.

Sono le cosiddette microaggressioni, espressioni di pregiudizio o stereotipo che spesso non nascono da cattive intenzioni, ma da automatismi culturali.

Come scrive la psicologa Ella F. Washington su Harvard Business Review (2022), le microaggressioni possono colpire chiunque, a ogni livello professionale, e riguardano qualsiasi aspetto dell’identità: origine, genere, età, orientamento sessuale, salute mentale, status genitoriale o background socioeconomico.

Nell’articolo, Washington riporta un dato eloquente: sette persone su dieci dichiarano che sarebbero infastidite da una microaggressione, e una su due considererebbe la possibilità di lasciare il proprio lavoro dopo averla subita. 

Un segnale che il problema non è marginale: le microaggressioni non sono affatto micro nei loro effetti. L’impatto cumulativo – spiega Washington – si traduce in stress cronico, difficoltà di concentrazione, insonnia, fino a un calo della soddisfazione e della permanenza in azienda.

In molti contesti, la risposta più comune è ancora la minimizzazione: “era solo una battuta”, “non volevo offendere”. Ma l’intenzione non annulla l’impatto. Le microaggressioni segnalano mancanza di rispetto e diseguaglianza, e possono contribuire nel tempo a creare un ambiente tossico, dove il linguaggio diventa il primo veicolo di esclusione.

Cosa sono (e cosa non sono) le microaggressioni

Le microaggressioni quindi non sono solo “parole sbagliate”, e spesso nemmeno episodi di discriminazione “evidente”. Sono invece messaggi impliciti di esclusione che si manifestano nel linguaggio quotidiano, in commenti o complimenti fuori luogo, nelle battute o negli assunti non detti.

A differenza delle discriminazioni esplicite, agiscono in modo sottile e ripetuto, ma i loro effetti non sono minori: influenzano il senso di appartenenza, la fiducia e, nel tempo, la salute psicologica di chi le subisce.

Ecco alcuni esempi concreti – tratti da The Micropedia, piccola enciclopedia delle microaggressioni, e da casi comuni nei contesti italiani – che aiutano a comprendere la varietà e la sottigliezza con cui possono manifestarsi:

  • Genere: «Dovresti sorridere di più», detto a una collega in riunione.
    Il messaggio implicito è che una donna debba mostrarsi accogliente e positiva, anche quando non se la sente o il contesto non lo richiede. È un commento che agli uomini, quasi sempre, viene risparmiato.
  • Origine: «Avevo capito che sei meridionale, si sente dall’accento!». Il messaggio implicito è che esista un modo “neutro” di parlare – in realtà coincidente con l’accento del Nord – e che gli altri debbano essere segnalati come deviazioni da quella norma.
  • Orientamento sessuale: «Porterai il tuo compagno alla festa aziendale?», chiesto alla nuova collega durante la pausa caffè. L’assunto implicito è l’eteronormatività, il fatto che in quanto donna debba avere una relazione con un uomo.
  • Età: «Sei ancora troppo giovane per capire come funziona qui.» Qui l’età diventa sinonimo di incompetenza o inesperienza, dando spazio al linguaggio ageista.
  • Disabilità o salute mentale: «Non sembri una persona depressa» oppure «Non si direbbe che hai una disabilità». Frasi che negano esperienze personali reali solo perché non corrispondono allo stereotipo sulle persone con disabilità: un pensiero abilista.
  • Status genitoriale: «Puoi fermarti tu fino a tardi, visto che non hai figli?». Si presuppone che chi non ha figli abbia meno diritto al tempo libero o alla cura di sé.

Questi esempi mostrano che la microaggressione non coincide con l’offesa, ma con la dissonanza tra intenzione e impatto. Chi la pronuncia spesso vuole trasmettere affabilità, curiosità o simpatia; chi la riceve, invece, percepisce un confine: quello tra chi è riconosciuto come “norma” e chi viene definito per differenza.

Proprio per questo, le microaggressioni non sono un problema di sensibilità eccessiva, ma di relazioni squilibrate. Il loro peso non dipende dalla singola frase, ma dalla frequenza e dalla prevedibilità con cui certi gruppi se le sentono rivolgere. Nel tempo, questo crea un clima di logoramento che riduce la motivazione, l’autenticità e la collaborazione all’interno dei team.

Comprendere cosa sono le microaggressioni, dunque, è il primo passo per trasformare la cultura aziendale: non per censurare, ma per prendere consapevolezza del potere delle parole e di ciò che rivelano sulle nostre abitudini.

Il linguaggio come barometro della sicurezza psicologica

Il linguaggio che permea le dinamiche e la convivenza di un team aziendale ha un grande impatto sulla sicurezza psicologica delle persone che lo compongono. Dove prevalgono espressioni svalutanti o stereotipi, il benessere cala.

In questo contesto, le microaggressioni non restano confinate alle persone che le subiscono, ma si diffondono come segnali di rischio nel clima organizzativo. Quando diventano parte della routine, anche chi non le subisce direttamente può percepire che esporsi è pericoloso, che conviene tacere o uniformarsi.

È anche così che si sviluppa un ambiente tossico in azienda: non da un episodio isolato, ma dall’assenza di correzione collettiva. Ogni volta che un commento resta senza risposta, si consolida l’idea che “non sia poi così grave”. Al contrario, le organizzazioni che imparano a riconoscere e a discutere queste dinamiche – con rispetto e senza colpevolizzare – costruiscono un ambiente di fiducia, più solido, sereno e rispettoso delle identità che lo abitano.

Affrontare responsabilmente le microaggressioni significa riconoscere che la cultura di un’organizzazione si costruisce nelle interazioni più ordinarie. Il potere, la fiducia e il riconoscimento si distribuiscono ogni giorno, prima ancora che nelle policy o nei piani di sviluppo.

Un linguaggio che esclude, anche in modo involontario, riduce lo spazio di libertà di chi lavora e impoverisce la qualità collettiva del pensiero. Quando invece l’attenzione alle parole diventa parte del lavoro, il dialogo si fa più preciso e le differenze più leggibili.

La maturità di un’organizzazione si misura nella capacità di aprirsi al confronto, riparare gli errori e restare vigile sul modo in cui le persone si parlano. Non è un mero esercizio di forma, bensì una questione sostanziale: dal linguaggio dipende la possibilità stessa di riconoscersi come parte di un luogo che rispetta, include e fa crescere.

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