Che impatto ha la globalizzazione sulle differenze di genere?

In che modo il commercio influisce sull’occupazione maschile e femminile? A domandarselo sono due ricercatori dell’OCSE nello studio Gender in Global Value Chains.

La ricerca è partita da un pensiero piuttosto diffuso. Più che un pensiero, una vera e propria preoccupazione: che gli impatti della globalizzazione e del capitalismo creino una distanza troppo ampia tra ricchi e poveri, tra vincitori e perdenti, concentrando nelle mani di pochi la maggior parte del potere economico e decisionale. Partendo da qui, i ricercatori dell’OCSE si sono chiesti dove, in questo gap tra forti e deboli, si trovi la questione del genere. Infatti, esistono relativamente pochi dati inerenti all’impatto della globalizzazione sul genere (o, viceversa, quello del genere sulla globalizzazione). Mancano, in particolare, studi che ci confermino, o meno, se l’effetto dei cambiamenti strutturali creati dalla globalizzazione abbiano avuto conseguenze (e di che misura) sui tassi di occupazione delle donne rispetto all’economia nel suo complesso.

Le analisi preliminari prodotte dall’OCSE mostrano che la quota di lavoro maschile che è direttamente (ossia l’occupazione nelle imprese esportatrici che lavorano sull’export) e indirettamente (ossia presso i fornitori che si occupano della distribuzione alle imprese esportatrici) dipendente dal commercio (quindi da ciò che è alla base della globalizzazione) è molto più alta di quella delle donne. Si parla di una media del 37% a fronte del 27% nei paesi OCSE.

 

Inoltre, esistono forti differenze di genere nella nicchia delle esportazioni. Nella maggior parte dei paesi, la percentuale di donne occupate nell’export è significativamente più elevata nei canali indiretti che in quelli diretti. Nel 2014, l’occupazione diretta è stata di poco superiore al 20%, ma quella indiretta si è avvicinata al 35%.

Ma non è finita qui: perché anche all’interno degli stessi canali indiretti, la natura della partecipazione di uomini e donne è profondamente diversa. In Germania, ad esempio, meno del 20% dei posti di lavoro indiretti femminili si trova nei settori industriale e delle materie prime (agricoltura, servizi pubblici, edilizia, produzione e miniere), mentre quasi la metà (45%) degli uomini è occupata proprio in questi compartimenti di mercato.

 

In realtà, considerando il gap occupazionale generale tra uomo e donna, il fatto che esista un divario anche nel campo della globalizzazione rende questi risultati poco sorprendenti. I tassi di partecipazione delle donne, in media, sono molto più alti nel settore dei servizi (come la salute e l’istruzione) che in quello della manifattura, dove solo una persona su quattro nei paesi OCSE è di sesso femminile. Ciò che questi dati ci dicono è però che i paesi che sono cresciuti grazie all’integrazione delle value chain (il processo, cioè, che racchiude la logistica interna ed esterna, le operazioni, il marketing, le vendite e i servizi), sono gli stessi che presentano divari salariali di genere consistenti, esacerbando in tal modo le disuguaglianze (eccolo, il gap tra vincitori e perdenti) e classificandosi, tra l’altro, come i paesi in cui è più importante che altrove aumentare la partecipazione lavorativa femminile.

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