Cittadinanza e accesso al lavoro: perché parlarne in azienda

«Io mi sento pienamente italiana, però secondo molte persone non lo sono. E quindi di riflesso, pur non sentendomi diversa, percepisco il senso di diversità attraverso l’altro.» 

Sono le parole di una delle persone di nuova/seconda generazione intervistate per la ricerca Multiculturalità al lavoro: storie e dati dal mondo aziendale, pubblicata a giugno 2025 e curata dal Centro Studi di Valore D. In questa testimonianza si concentra una delle contraddizioni più profonde che vivono molte persone con background migratorio in Italia, soprattutto le nuove e seconde generazioni: essere italiane a tutti gli effetti per cultura, lingua e appartenenza, ma continuare a essere percepite come “altre”. E spesso, anche nel mondo del lavoro, trattate di conseguenza.

Il dibattito pubblico italiano si concentra quasi sempre sugli aspetti giuridici e politici della cittadinanza. Raramente si affronta il suo impatto concreto nei contesti formativi e professionali. Eppure, è proprio lì che la mancanza della cittadinanza può trasformarsi in una barriera invisibile, ma potentissima.

Un fenomeno che emerge chiaramente in un momento storico in cui la presenza di persone con background migratorio è stabile: al 1° gennaio 2025, sono oltre 5,4 milioni le persone straniere residenti in Italia (9,2% della popolazione complessiva, dice l’ISTAT). 

Questi numeri, però, non restituiscono l’esperienza delle nuove/seconde generazioni, spesso invisibili nei dati, e i pregiudizi che affrontano quotidianamente in termini di qualifiche, lingua e opportunità.

Per un’azienda che vuole promuovere l’inclusione, il legame tra multiculturalità e cittadinanza non può essere un tema tabù. È un fattore strutturale che influenza l’accesso alle opportunità, la qualità del lavoro, la possibilità di crescita. E quindi, in ultima analisi, l’equità.

La cittadinanza non è solo un documento

La cittadinanza non è soltanto una questione di carta d’identità. È uno status che regola l’accesso ai diritti: all’istruzione, al voto, alla formazione professionale, all’accesso a concorsi pubblici o a determinati percorsi di carriera. 

Non avere la cittadinanza italiana, per una persona nata o cresciuta in Italia, significa vivere una condizione di esclusione che può durare molti anni, anche decenni. 

In Italia vige ancora la normativa basata sullo ius sanguinis: si acquisisce la cittadinanza per discendenza, non per nascita sul territorio. Chi nasce da genitori stranieri in Italia ha diritto alla cittadinanza solo al compimento dei 18 anni, a condizione di aver risieduto nel Paese legalmente e ininterrottamente fino a quel momento. 

Per le persone nate e cresciute in parte all’estero, la strada è ancora più lunga: servono almeno dieci anni di residenza regolare, oltre a requisiti economici e linguistici. Dieci anni che possono facilmente allungarsi e diventare «16, 18, persino 30 anni di attesa», come racconta Nogaye Ndiaye, giurista e autrice afrodiscendente, a Donata Columbro per la sua newsletter Ti Spiego il Dato.

In questo lasso di tempo, continua Ndiaye, le persone che hanno iniziato il percorso di richiesta della cittadinanza per naturalizzazione, possono trovarsi ad affrontare una serie di spese e incombenze che occupano le giornate e costringono ad assentarsi da scuola o chiedere ferie a lavoro.

Nel terzo episodio del podcast Gen Soli – Italiani senza cittadinanza, Zelihan Compaore, infermiera laureata ma bloccata dalla burocrazia, e Naomi Kelechi Di Meo, insegnante, raccontano come la mancanza di cittadinanza abbia avuto un impatto pesante sulla libertà di vivere serenamente il proprio percorso di studi.

La ripercussione sulle scelte lavorative

È facile immaginare come tutto questo si ripercuota non solo sui diritti di base della persona, ma anche sulla sua libertà di prendere decisioni importanti per la propria vita lavorativa: partecipare a bandi o selezioni riservate ai cittadini italiani o comunitari, ottenere borse di studio o tirocini, aderire al progetto Erasmus+ o candidarsi a una posizione professionale fuori dall’Italia.

Il divario è ancora più evidente se si incrociano i dati con il genere. Le donne con background migratorio, anche quando nate o cresciute in Italia, affrontano ostacoli più marcati. 

Secondo il Rapporto annuale su mercato del lavoro e politiche di genere 2024 di INAPP, il tasso di occupazione delle donne senza cittadinanza italiana è del 48,7%, inferiore a quello delle donne native (53%); anche il tasso di disoccupazione è più alto (8,1% contro 4,8%). Le donne con background migratorio sono inoltre più spesso impiegate con contratti a termine (40,4%) o part-time (49,2%). Il fenomeno del “lavoro povero” – cioè un’occupazione che, pur essendo formalmente regolare, non garantisce un reddito sufficiente a uscire dalla soglia di povertà – le colpisce in misura quasi tripla rispetto agli uomini (18,5% contro 6,4%).

Dopo la cittadinanza, una nuova invisibilità

Una volta acquisita la cittadinanza italiana, spesso l’esperienza di chi ha un background migratorio smette di essere tracciato, non è più visibile. 

Nei dati statistici, nei racconti aziendali, nelle strategie di diversity & inclusion, la cittadinanza acquisita diventa una sorta di “punto di arrivo” che cancella la complessità del percorso, le discriminazioni sistemiche, le competenze maturate tra più culture. Molte persone continuano a essere giudicate, e talvolta discriminate, sulla base del colore della pelle, del nome, dell’accento o della provenienza familiare.

Esiste un vuoto informativo, una sorta di “invisibilità post-cittadinanza” che rischia di cancellare non solo le barriere ancora presenti, ma anche le risorse. Le aziende, le istituzioni e persino le indagini statistiche faticano a misurare come si evolve l’inclusione delle persone con background migratorio, o a riconoscere le competenze plurilingui e interculturali che queste persone portano con sé. 

I dati ufficiali lo confermano: le analisi del Ministero del Lavoro sul mercato del lavoro delle persone con background migratorio in Italia si basano spesso su dati aggregati, che faticano a restituire la complessità dei percorsi individuali. Manca una lettura più granulare, capace di raccontare le traiettorie di mobilità sociale e le barriere invisibili che continuano ad agire anche dopo l’acquisizione della cittadinanza.

Per costruire politiche aziendali efficaci ed eque, serve quindi uno sguardo più ampio che sappia andare oltre la cittadinanza come categoria giuridica, e riconoscere la pluralità delle identità, dei percorsi e delle discriminazioni. 

Raccogliere dati più completi – sul background culturale, sulla lingua parlata in famiglia, sull’esperienza migratoria – è un primo passo. Ma servono anche spazi di ascolto, di condivisione e rappresentazione: il senso di appartenenza si costruisce ogni giorno, anche nei luoghi di lavoro.

Cittadinanza e lavoro: una questione anche aziendale

Le ripercussioni di questo contesto, frutto del connubio tra norme statali e pregiudizi culturali, coinvolgono direttamente anche le aziende. 

Secondo il rapporto Censis 2024 “Gli italiani di seconda generazione”, le persone di nuova/seconda generazione rappresentano una risorsa cruciale per l’Italia: parlano in media quattro lingue, padroneggiano competenze interculturali, si definiscono “naturalmente globali”. 

L’86,2% di loro vede il lavoro come uno strumento per coltivare le proprie capacità, e il 75,8% come veicolo di realizzazione personale.

Ma la frustrazione cresce quando le aspirazioni si scontrano con il sistema che li percepisce ancora come “altri”. 

Il 64,4% ritiene che le discriminazioni stiano aumentando, e oltre un terzo considera seriamente l’idea di trasferirsi fuori dall’Italia per studiare o lavorare. 

Una perdita potenziale per il tessuto produttivo italiano, che già fatica a trattenere le persone più giovani. Se il pool di talenti a cui attingere è limitato da barriere formali o culturali, il sistema nel suo complesso perde ricchezza, innovazione, diversità. 

Per questo, ignorare l’impatto della cittadinanza sulle traiettorie lavorative significa trascurare un’intera fascia della popolazione che, invece, può contribuire in modo significativo alla crescita e alla trasformazione delle organizzazioni.

Che cosa possono fare le aziende?

Se le aziende non possono modificare le leggi sulla cittadinanza, di certo possono assumere un ruolo attivo nel riconoscere e valorizzare i percorsi delle persone con background migratorio del loro organico. 

Per farlo, è necessario uno sguardo capace di leggere le disuguaglianze che attraversano i percorsi di vita e le carriere, anche dopo il “riconoscimento formale” della cittadinanza. 

La già citata ricerca Multiculturalità al lavoro: storie e dati dal mondo aziendale di Valore D, include una roadmap con diverse leve strategiche che possono aiutare a costruire un ambiente di lavoro più equo e consapevole delle dinamiche legate alla cittadinanza:

  • Cultura e valori aziendali: promuovere un clima di apertura e rispetto crea un senso di comunità, dove ogni persona conta. Per questo, è importante valorizzare anche le storie di chi ha ottenuto la cittadinanza per naturalizzazione o per ius soli, e non dare mai per scontato che “italiano” significhi “senza origini migratorie”.
  • Formazione, sensibilizzazione e condivisione: promuovere una maggiore conoscenza della multiculturalità e multietnicità negli ambienti lavorativi è fondamentale per creare un buon clima aziendale e solidificare le relazioni tra colleghi. Tra le soluzioni possibili ci sono formazioni specifiche a HR, Team Leader e Management Team sulle competenze interculturali e, per il resto della popolazione aziendale, percorsi formativi su bias, linguaggi inclusivi e le varie forme di discriminazione (razzismo, microaggressioni, discriminazione sistemica, ecc.).
  • Processi e policy: è importante adottare pratiche di selezione e valutazione che non si basino su criteri implicitamente escludenti (come la “neutralità linguistica”), e ampliare i canali di ricerca per raggiungere una platea più rappresentativa della società attuale. Rientra in questo punto anche la creazione di affinity network ed Employee Resource Group (ERG) per promuovere pratiche di building e belonging per confrontarsi sul tema della multiculturalità e multietnicità in azienda.
  • Misurazione, KPI e obiettivi: misurare e raccogliere dati permette alle aziende di acquisire consapevolezza del proprio status quo. Tra i dati più interessanti: composizione della forza lavoro, bisogni e aspettative di persone con background migratorio e la diversità dei percorsi di vita, per evitare che la cittadinanza “cancelli” la possibilità di osservare e contrastare le disuguaglianze. Anche la definizione degli obiettivi o KPI può diventare un’occasione per migliorare la rappresentatività delle minoranze etnico-culturali in tutti i ruoli e livelli.
  • Supporto pratico: anche per chi ha acquisito la cittadinanza, permangono difficoltà legate al riconoscimento di titoli di studio, accesso a tirocini, opportunità formative internazionali o ricerca di alloggio. Le aziende possono farsi alleate di questa transizione.
  • Collaborazione e partnership: stringere relazioni con associazioni, enti locali e università è un ottimo modo per collaborare più da vicino con le realtà del territorio. Tra le iniziative possibili ci sono la promozione di percorsi di empowerment per persone con background migratorio; l’uso di portali e canali universitari per l’assunzione di giovani di seconde/nuove generazioni; allearsi con organizzazione del territorio per iniziative di contrasto al razzismo e alla disciminazione; partecipare a eventi che promuovono il dialogo tra culture diverse nei luoghi di lavoro.

In un Paese in cui oltre un milione di persone nate da genitori stranieri, ma cresciute e spesso scolarizzate in Italia, non ha ancora ottenuto la cittadinanza, è urgente che anche il mondo del lavoro si interroghi: su chi ha davvero accesso alle opportunità, su quali storie restano invisibili, e su come possiamo costruire ambienti capaci di riconoscere davvero tutte le identità.

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