Donne e lavoro in Italia? Voto: insufficiente.
La Cgil ha proposto in questi giorni l’istituzione di un piano straordinario che promette di aumentare i congedi parentali, salvaguardare il rientro in azienda post-maternità, riconoscere il lavoro di cura, garantire più asili nido, dare nuovi incentivi su politiche di conciliazione. Si tratta di una Piattaforma di genere che, se avesse successo, potrebbe addirittura essere contrattata all’interno dei luoghi di lavoro e diventerebbe attiva su cinque direttrici: occupazione, parità di salario, condivisione, welfare, molestie.
Il che ci dà l’occasione, nell’attesa di vedere cosa accadrà, di fare un piccolo ripasso sulle ragioni del divario retributivo di genere.
Sì, perché il pay gap continua ad essere una realtà nel nostro Paese, che si posiziona infatti all’82esimo posto su 144 per divario salariale. Dati Istat alla mano, bisogna ancora scegliere tra figli e lavoro: 43 donne su 100 riescono a rimanere in ufficio dopo essere diventate madri. E questo, insieme alle necessità del lavoro di cura, è la causa principiale della fuoriuscita delle donne dal mercato del lavoro. Risultato? La pensione non è assicurata – e l’autonomia economica in età avanzata, quindi, neanche.
Inoltre sono sempre le donne a svolgere lavori part-time (34,9% contro appena l’8,6% degli uomini) pagandone poi le conseguenze in termini di carriera, opportunità di formazione, diritti pensionistici e sussidi di disoccupazione.
Insomma, spesso la disuguaglianza di genere non si manifesta direttamente nella busta paga, ma, in piccoli pezzi, in tutto ciò che riguarda il percorso professionale di ogni dipendente – e il salario ne è solo l’effetto finale.
Eppure, anche il Fondo Monetario Internazionale, dopo aver denunciato l’Italia per aver fatto troppo poca per la propria forza lavoro femminile, aveva dichiarato che se il tasso d’occupazione delle donne fosse portato allo stesso livello di quello degli uomini, il Pil crescerebbe di oltre il 15%.