Inspiration porn e oltre: disabilità, rappresentazione e lo sguardo altrui

“Chissà perché alle persone piace così tanto condividere video in cui una persona con disabilità fa qualcosa di assolutamente normale.”

Con questa frase, incipit di un suo post Instagram, la giornalista e attivista Valentina Tomirotti rompe il comune silenzio su una forma sottile di discriminazione abilista: l’inspiration porn.

Si parla di inspiration porn ogni volta che una persona con disabilità viene lodata per compiere azioni comuni – lavorare, andare in palestra, laurearsi – come se fossero eccezionali. Un modo per “ispirare” chi non vive quella condizione, più che per valorizzare davvero la persona ritratta.

Il problema? Questo tipo di rappresentazione, apparentemente positiva, non fa che rinforzare stereotipi e aspettative abiliste. Più che riconoscere la soggettività, celebra l’eccezione. Più che valorizzare l’inclusione, enfatizza il “superamento” del limite. E sposta l’attenzione dalle vere barriere: quelle sociali, culturali, ambientali.

Nel mondo del lavoro e della comunicazione aziendale, riflettere su questi meccanismi è essenziale. Perché la rappresentazione conta. Ma deve contare davvero: nel modo in cui raccontiamo le persone, nel valore che diamo alla loro voce, nelle opportunità che contribuiamo a costruire.

Cos’è l’inspiration porn e perché è un problema

Il termine “inspiration porn” è stato coniato dall’attivista australiana Stella Young in un talk del 2014 diventato tassello storico della lotta contro l’abilismo: I’m not your inspiration, thank you very much

Con ironia tagliente, Young denunciava una tendenza diffusa nei media e nella cultura pop: quella di trasformare le persone con disabilità in strumenti motivazionali per chi disabile non è. «Nell’esperienza di molti, le persone disabili non sono mai insegnanti, medici o parrucchieri. Non siamo persone reali. Siamo lì per ispirare.», spiegava.

L’inspiration porn, continuava, «è un modo per oggettificare le persone disabili a beneficio delle persone non disabili. Lo scopo è quello di ispirare, di motivare, in modo che le si guardi e si pensi: “Beh, per quanto brutta sia la mia vita, potrebbe essere peggiore. Potrei essere quella persona”.» 

Nel suo discorso, Young non vuole certo negare le difficoltà che costellano la vita delle persone con una disabilità. Ci sono difficoltà che non si superano ma, specifica l’attivista, non hanno a che fare con il corpo. 

È a questo punto che Young spiega il suo uso del termine “disabled people”, che in italiano potremmo tradurre meglio come persone disabilizzate (o disabilitate). È un’espressione che punta i riflettori sul modello sociale della disabilità, quello per cui la disabilità è causata dalla società e dalle sue strutture, non dalle forme dei corpi e dalle diagnosi mediche.

Come spiega il giornalista e attivista Iacopo Melio in un suo pezzo per Invisibilità e Diritti, il passaggio da “disabilità” a ”disabilitazione” «serve a sottolineare il fatto che la disabilità non è strettamente legata alla persona in questione, né tantomeno è una sua responsabilità, bensì che è la società a creare una precisa difficoltà, e quindi a “disabilitare” le cittadine e i cittadini, quando non fornisce loro gli strumenti, i servizi e gli aiuti necessari per poter vivere sempre in piena autonomia e indipendenza.»

L’atteggiamento da inspiration porn, invece, attinge a una visione della disabilità non come una condizione esistenziale e sociale, ma come ostacolo individuale da superare. Le persone non sono viste nella loro complessità, ma come eroi solitari, coraggiosi, degni di ammirazione solo se “ce la fanno”.

Il messaggio implicito? Che vivere con una disabilità sia di per sé una tragedia da riscattare. Che la normalità sia altrove, e che valga la pena raccontare solo chi riesce ad avvicinarvisi. Così, mentre si applaude la persona “ispiratrice”, si ignorano le disuguaglianze strutturali, le discriminazioni sistemiche, la necessità di accessibilità e diritti.

In più, come evidenzia Gaia Presotto in una recente intervista, quando queste narrazioni diventano la norma, rischiano di essere interiorizzate anche da chi vive con una disabilità, alimentando senso di inadeguatezza, auto-colpevolizzazione, ansia da prestazione. Come se non bastasse essere se stessi: bisogna anche essere “esemplari”.

Quando accade al lavoro: tra storytelling e stereotipi

Nei contesti professionali, le narrazioni legate all’inspiration porn trovano terreno fertile. Campagne di employer branding, comunicazione interna, storytelling aziendale: spesso si sceglie di raccontare “storie ispirazionali” di dipendenti con disabilità mettendo l’accento sul coraggio, la determinazione, la forza di volontà. E dimenticando tutto il resto.

Non si parla, ad esempio, degli ostacoli architettonici e digitali che quella persona affronta ogni giorno per accedere al luogo di lavoro. Non si cita la mancanza di percorsi di carriera accessibili. Non si menzionano i bias inconsci, le barriere culturali, la fatica aggiuntiva che richiede ottenere gli stessi riconoscimenti delle colleghe e dei colleghi.

Invece di interrogarci su cosa debba fare l’organizzazione per garantire equità e accessibilità, ci si concentra su quanto sia ammirevole chi “ce la fa lo stesso”. Così, anche in buona fede, si finisce per perpetuare uno sguardo abilista: si premia l’eccezione, ma si lascia intatta la regola.

Una delle campagne che ha saputo ribaltare questa logica è “Assume that I can”, promossa da CoorDown per la Giornata Mondiale sulla Sindrome di Down 2024. Il messaggio è semplice ma rivoluzionario: non partire dai limiti presunti, ma dalle possibilità. La campagna ha scelto di raccontare la realtà delle persone con sindrome di Down senza retorica né eroismi, mettendo al centro il diritto di essere ascoltate, rispettate, assunte. 

È lo spirito su cui si fonda anche showREAL, la campagna social digital di Valore D, in collaborazione con Fondazione Diversity, OBE e  YAM112003, per cambiare la narrazione e promuovere una rappresentazione autentica delle persone con disabilità. La campagna, lanciata nel 2023, ha come protagonisti tre creator d’eccezione – Arianna Talamona, Ludovica Billi e Marco Andriano – che autopromuovono le proprie capacità ai reparti marketing e alle agenzie pubblicitarie con l’intento di farsi scegliere per i loro prossimi spot:

Due esempi potenti di comunicazione accessibile e non abilista, che invita a cambiare lo sguardo, dalle emozioni all’equità.

Oltre la retorica: strumenti per cambiare sguardo

Superare l’inspiration porn non significa rinunciare a raccontare storie di disabilità. Significa, piuttosto, interrogarsi su chi racconta, come, e con quale scopo. Significa spostare il focus dalla performance individuale alle condizioni sistemiche che rendono quella performance necessaria.

Nella comunicazione aziendale, questo passaggio richiede consapevolezza e cura. Evitare narrazioni paternalistiche o eroiche è un primo passo. Ma serve anche riconoscere che ogni storia di lavoro, quando riguarda una persona con disabilità, si intreccia con una struttura fatta di diritti, accessibilità, tutele. E spesso, anche di assenze.

Ecco un esempio concreto. Quando una campagna di employer branding presenta il profilo di una persona del team che vive con una disabilità, chiediamoci: stiamo valorizzando la sua competenza, la sua professionalità, il contributo che porta al team? O stiamo usando la sua storia per comunicare un’immagine di azienda “inclusiva”, senza parlare davvero di cosa fa l’azienda per garantire accessibilità quotidiana?

Le organizzazioni possono, e devono, dotarsi di strumenti concreti per evitare questi scivolamenti. Alcuni spunti operativi possono essere:

  • Formazione continua per chi si occupa di comunicazione interna ed esterna, HR, DEIB. Non solo sui temi della disabilità, ma anche sulle manifestazioni strutturali dell’abilismo.
  • Linee guida inclusive per lo storytelling, sviluppate insieme a persone con disabilità e basate sul principio “niente su di noi senza di noi”.
  • Revisione critica delle narrazioni esistenti: in quante occasioni si è usato un linguaggio che infantilizza, eroicizza o medicalizza? In quante si è ascoltata la voce diretta delle persone coinvolte?

E infine, coinvolgimento reale: perché le aziende che vogliono davvero superare lo sguardo abilista devono imparare a farsi domande scomode. A riconoscere che la disabilità non è un problema da raccontare con delicatezza, ma una condizione che può diventare discriminante quando le strutture non sono progettate per tutte le persone.

Articoli correlati