Le hanno chiamate “Grandi dimissioni” (Great Resignation negli Stati Uniti, dove il fenomeno si è verificato per primo) ma sarebbe più onesto parlare di “Grande scontento” (Great Discontent): così scriveva la società di consulenza Gallup nel 2021, quando milioni di persone decisero di lasciare il proprio impiego. Non per capriccio, ma per disillusione. Non per inseguire un salario più alto, ma per sottrarsi a un equilibrio che non reggeva più: oltre il 40% delle persone che hanno cambiato impiego negli Stati Uniti lo ha fatto per migliorare la qualità della vita e le relazioni, non per ottenere un aumento.
Quel movimento collettivo ha reso visibile qualcosa che covava da tempo: il malessere silenzioso di chi sul lavoro sente di non crescere professionalmente, di non ottenere il giusto apprezzamento o di non ricevere cura e rispetto.
Da allora, il confine tra “avere un lavoro” e “stare bene al lavoro” non coincide più. Il primo è una condizione economica, il secondo è una condizione umana.
Anche in Italia, negli anni successivi alla pandemia, il fenomeno ha assunto altre forme ma con la stessa radice. Il messaggio è chiaro: la retribuzione è necessaria, ma non basta. Chi lavora cerca ascolto, fiducia, autonomia, possibilità di crescita e di pausa. Cerca spazi dove il tempo non sia solo produttivo, ma anche vivibile.
In questo scenario, la nuova ricerca dell’Osservatorio D (frutto della collaborazione tra SWG e Valore D) sul contributo DEI per il benessere, dentro e fuori il lavoro, traccia una linea nitida: il 65% delle persone considera il lavoro un elemento centrale del proprio benessere quotidiano. Una percentuale che ci ricorda quanto il lavoro incida sulla nostra salute mentale, sulle relazioni e sulla percezione di sé.
Cosa ci fa stare bene (davvero) quando lavoriamo
Il benessere in azienda non è una formula astratta, ma la somma di ritmi sostenibili e relazioni che funzionano. È la sensazione quotidiana, quasi invisibile ma percepibile, che il proprio tempo abbia valore.
L’ultima ricerca dell’Osservatorio D di Valore D lo conferma con chiarezza: quando si guarda oltre la retribuzione, ciò che le persone chiedono al lavoro è prima di tutto sicurezza e salute (42%), relazioni sane e rispettose (33%), flessibilità oraria e obiettivi chiari (32%). Seguono i ritmi sostenibili (29%) e le prospettive di crescita (29%). Solo il 3% delle persone intervistate dichiara che “conta solo la retribuzione”.
Sono numeri che raccontano una trasformazione culturale profonda: non basta più “avere” un lavoro stabile per sentirsi bene, serve stare in un ambiente che riconosce la complessità delle persone.
Sempre più persone oggi non si accontentano della semplice motivazione sul lavoro; vogliono andare più a fondo e concentrarsi anche sulla ricerca di senso ed equilibrio. Cercano la possibilità di appartenere senza doversi nascondere o adattare a un modello unico.
Parlare di benessere organizzativo significa allora parlare di responsabilità condivisa. Un ambiente di lavoro “sano” è quello che consente alle persone di portare la propria interezza, di crescere anche attraverso l’errore e di confrontarsi senza timore. Dove il dialogo è parte integrante del lavoro, non un suo accessorio.
Nel linguaggio della produttività, tutto questo può sembrare poco misurabile. Eppure i dati raccontano l’opposto: benessere e performance si sostengono, non si escludono. Quando le persone lavorano in un contesto che riconosce la loro umanità, cresce la fiducia, diminuiscono i conflitti e si consolida un senso di appartenenza che nessun bonus può comprare.
Cosa logora il benessere: le crepe invisibili del quotidiano
Le condizioni che minano il benessere al lavoro non sono sempre visibili e non vanno ricercate per forza in eventi traumatici. Si tratta piuttosto di dinamiche ripetute che nel tempo erodono motivazione e fiducia: ritmi eccessivi, comunicazioni ambigue, ma anche mancanza di rispetto o di ascolto.
La ricerca dell’Osservatorio D rileva che tra le principali fonti di disagio ci sono:
- la mancanza di rispetto (36%)
- i ritmi insostenibili (32%)
- la richiesta di reperibilità continua (25%)
- l’assenza di ascolto da parte dei superiori (25%).
Sono numeri che fotografano il quotidiano di molte persone e che, nella loro normalità, mostrano quanto la qualità del lavoro dipenda dalla qualità delle relazioni.
Viviamo in organizzazioni sempre più interconnesse, ma non necessariamente più attente.
L’iperconnessione moltiplica i messaggi e la velocità di risposta è diventata un indicatore di efficienza, anche quando riduce lo spazio per pensare e il tempo per approfondire e dare feedback.
In questo contesto, il rispetto e la chiarezza comunicativa non sono un valore “soft”, ma una condizione di tenuta per i team. La lente intersezionale con cui sono stati elaborati i dati ci mostra una sensibilità marcata tra le donne, che più degli uomini pensano che le mancanza di rispetto o di riconoscimento rendano il lavoro insostenibile. Segno che le disuguaglianze non si esprimono solo nell’accesso alle opportunità, ma anche nel modo in cui si vive la quotidianità lavorativa.
Il malessere lavorativo non è un problema del singolo, ma un indicatore di come l’organizzazione funziona nel suo insieme. Quando aumenta il turnover o si moltiplicano i conflitti, spesso non è questione di persone “poco resilienti”, ma di contesti che non offrono condizioni sostenibili.
Contrastare questa erosione silenziosa richiede un cambio di prospettiva: una leadership che si assuma la responsabilità del clima aziendale, legittimando la pausa (e perché no, anche la lentezza) e dando valore al confronto e alla chiarezza. Questo permette di mantenere le competenze riducendo la fatica relazionale e rafforzando la fiducia collettiva.
Benessere organizzativo: dove si gioca la fiducia delle nuove generazioni
Tra le nuove generazioni la sensibilità verso i temi dell’inclusione è molto alta: secondo il pledge Diamo forma al lavoro del futuro presentato ad agosto 2024 da Valore D, il 62% delle persone della Gen Z dichiara un forte interesse per la DEI. Eppure, quando entrano nel mondo del lavoro, questa aspettativa incontra una realtà meno rassicurante: il 58% lo percepisce come un contesto poco attento all’inclusione e solo il 9% ritiene che i principi DEI siano davvero applicati in modo compiuto.
Questa distanza non è necessariamente un segno di sfiducia, ma di maturità culturale. Chi entra oggi nel mercato del lavoro dà per assodati alcuni valori – rispetto delle identità, parità di trattamento, ascolto – e concentra le proprie preoccupazioni su altri elementi fondamentali come la stabilità economica, la trasparenza delle opportunità e la possibilità di crescere senza dover sacrificare il proprio equilibrio di vita.
È un segnale chiaro: le persone più giovani chiedono coerenza operativa, non solo dichiarazioni di principio. E questa coerenza si misura nell’esperienza concreta, cioè nel modo in cui si viene ascoltati, nel rispetto dei carichi di lavoro, nella qualità delle relazioni quotidiane.
E allora costruire benessere, oggi, significa rendere visibili le scelte quotidiane che lo sostengono e tradurre le parole in pratiche riconoscibili: tempi di lavoro sostenibili, obiettivi misurati sulla qualità e non solo sulla velocità, spazi di ascolto reale dove le persone possano esprimere criticità senza timore di ripercussioni.
Significa anche riconoscere il diritto alla disconnessione e il valore del rispetto come competenza manageriale, non come cortesia personale.
In questa prospettiva, la leadership non è chiamata solo a motivare, ma a curare le condizioni di lavoro. Il benessere non nasce (solo) dai benefit o dai corsi di mindfulness, ma da strutture che permettano alle persone di lavorare bene, con chiarezza di ruoli, carichi equilibrati e fiducia reciproca. Quando queste basi sono solide, gli effetti si vedono anche sui risultati: più produttività, meno dimissioni, migliore attrattività e innovazione.
Se quindi la retribuzione resta una leva necessaria dello star bene a lavoro, non definisce da sola la qualità dell’esperienza lavorativa. Le organizzazioni che investono nel benessere come pratica di gestione, e non come campagna promozionale, costruiscono fiducia e continuità. È qui che si formano ambienti di lavoro che fanno bene: alle persone e alle performance.



