Persone LGBTQIA+ a lavoro: il rischio del ‘passing’ come strategia di sopravvivenza

In un ambiente di lavoro ideale, ogni persona dovrebbe potersi presentare per ciò che è, senza doversi spiegare o giustificare. Eppure, per molte persone LGBTQIA+, la quotidianità professionale è fatta di piccoli compromessi, strategie silenziose e adattamenti continui.

Non parlare mai della propria vita privata. Scegliere abiti che non attirano domande. Misurare ogni parola per non esporsi, per non rischiare di diventare “la persona queer dell’ufficio”.

Sono scelte che non nascono solo da una cautela, ma sono spesso parte di una strategia di sopravvivenza.

Per molte persone LGBTQIA+, infatti, sopravvivere sul posto di lavoro significa anche questo: costruire una versione di sé che sembri “normata”, il più neutra possibile. È ciò che chiamiamo passing, cioè il tentativo di sembrare parte della norma, di “passare” come persone eterosessuali e cisgender (che cioè si riconoscono nel genere assegnato alla nascita), anche quando non lo si è.

Non possiamo categorizzare il passing come mera scelta individuale; è anche la risposta a un contesto che spesso non lascia alternative. E il suo costo, personale e collettivo, è molto più alto di quanto immaginiamo. In più, quando praticato in ambito aziendale, è un segnale chiaro che il luogo di lavoro non è ancora davvero inclusivo.

Cos’è il passing e perché riguarda chiunque

Con il termine passing si indica la capacità (o la necessità) di essere percepite come persone appartenenti a una maggioranza, anche quando non lo si è. Nel contesto LGBTQIA+, significa “sembrare” etero, cisgender, conforme alle aspettative della norma

Ma non è sempre una scelta libera: in ambienti professionali non sicuri, il passing diventa una forma di autodifesa. Può servire a evitare discriminazioni o situazioni escludenti, ma comporta anche una rinuncia alla propria autenticità e, spesso, un carico emotivo silenzioso.

Una ricerca sociologica del 2022 di Mustafa Özbilgin, della Brunel University di Londra in collaborazione con un team di ricerca turco, ha individuato quattro modi diversi in cui il passing può manifestarsi nel mondo del lavoro. Li presentiamo qui di seguito, accompagnandoli con uno scenario realistico che ne chiarisce meglio il significato:

  • Passing normalizzato: quando sia la persona che il contesto in cui si muove rifiutano l’identità LGBTQIA+, il passing diventa un’abitudine interiorizzata.

    Esempio: una donna bisessuale vive e lavora in un contesto fortemente LGBT-fobico e si convince, nel tempo, che sia più “giusto” o “sicuro” frequentare solo uomini, interiorizzando l’idea che relazioni queer siano troppo problematiche o inadeguate per il contesto in cui vive. Non si limita a nascondere sé stessa, ma crede che farlo sia la cosa più naturale o socialmente accettabile.
  • Passing difensivo: la persona accetta sé stessa, ma l’ambiente no; il passing serve come auto-protezione.

    Esempio: una persona trans lavora da anni nello stesso ufficio e conosce bene le posizioni transfobiche di alcuni colleghi. Pur vivendo con serenità la propria identità di genere, sceglie di non parlarne mai in ambito lavorativo: evita di correggere il proprio nome, di usare pronomi corretti o di accedere a spazi coerenti con la propria identità, per proteggersi da possibili discriminazioni o isolamento.
  • Passing strategico: l’ambiente è più aperto, ma la persona non si sente sicura o a proprio agio; il passing serve per cautela o per evitare complicazioni.

Esempio: una donna queer e poliamorosa, sposata con un uomo e in una relazione consensuale stabile con un’altra donna, lavora in un’azienda che promuove attivamente la diversity. Vive con serenità la propria identità e non teme giudizi espliciti, ma sceglie comunque di non parlare mai della propria struttura relazionale sul lavoro. Lo fa non per paura, ma per evitare il carico emotivo di doverla spiegare, giustificare o semplificare per renderla comprensibile agli altri.

  • Passing strumentale: anche quando l’ambiente è inclusivo, si può scegliere il passing per evitare svantaggi o disagi specifici.

Esempio: un manager gay, out e sposato da anni, partecipa a un incontro con nuovi fornitori internazionali provenienti da Paesi con forte stigma verso l’omosessualità. Pur essendo supportato dalla propria azienda, decide di non menzionare il proprio marito durante le conversazioni informali. Non per vergogna o insicurezza, ma per evitare fraintendimenti o reazioni che possano interferire con il buon esito dell’incontro.

In tutti i casi, il denominatore comune è uno: il contesto lavorativo porta per qualche motivo la persona LGBTQIA+ a nascondersi.

La scelta del passing, una realtà concreta in Italia

Quando si parla di passing, spesso ci si concentra sulla scelta individuale: perché non fai coming out? Perché non ti esponi?

Ma la vera domanda è un’altra: perché una persona deve sentirsi costretta a nascondersi per lavorare?

In Italia, il passing non è un fenomeno marginale. È una realtà concreta per molte persone LGBTQIA+, in particolare per le persone trans e non binarie, che affrontano quotidianamente un contesto lavorativo segnato da discriminazioni, silenzi e barriere spesso invisibili.

Secondo l’indagine ISTAT-UNAR 2023 sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone trans e non binarie, quasi una su due ha subito, durante la ricerca di lavoro, almeno un evento discriminatorio legato alla propria identità di genere. 

Più del 25% è stata scartata perché il proprio aspetto non era congruente con i documenti di identità, e il 46,4% ha scelto di non candidarsi a posizioni per cui era qualificata, per paura di essere respinta.

La discriminazione non si ferma all’ingresso nel mondo del lavoro, riguarda anche le relazioni quotidiane e la possibilità di crescere professionalmente. Il 40,6% delle persone trans e non binarie già occupate ha subito discriminazioni nello svolgimento del proprio lavoro: mancata promozione, differenze salariali, congedi negati, carichi di lavoro sproporzionati. Per le donne trans, queste percentuali salgono ulteriormente. 

E quando non si verifica una discriminazione formale, rimane un clima ostile costellato di derisioni e allusioni, isolate o sistematiche. Il 37,1% delle persone trans e non binarie ha raccontato di aver vissuto simili episodi di aggressione o ostilità sul posto di lavoro, quasi sempre da parte di colleghi e colleghe, molto spesso da superiori.

Poi ci sono le micro-aggressioni, quelle che si accumulano giorno dopo giorno fino a diventare insopportabili: l’uso del nome anagrafico senza consenso (il cosiddetto deadnaming), l’uso reiterato di pronomi sbagliati, le battute o gli sguardi insistenti. 

Davanti a questo scenario, il passing non è un vezzo né una strategia calcolata, ma il modo più efficace per sentirsi al sicuro. Sempre stando ai dati della ricerca ISTAT-UNAR, ci sono diversi modi in cui il passing si verifica tra le persone trans e non binarie (TNB):

  • Il 69,5% delle persone evita del tutto di parlare della propria vita privata.
  • Il 53,4% non mostra foto personali.
  • Circa la metà modifica il proprio aspetto o cambia comportamento per adeguarsi: dal tono di voce al modo di vestire, dalla scelta del bagno alla postura.
  • E il 37,4% ha subito un outing sul posto di lavoro, cioè la propria identità di genere è stata rivelata al resto del personale senza consenso.

Anche le persone cis lesbiche, gay e bisessuali (LGB) affrontano ostilità e paure che rendono il coming out un lusso spesso inaccessibile.

Il report ISTAT–UNAR 2022 ha rilevato che l’84,3% delle persone LGB è “parzialmente visibile” in azienda, ma che il 61,2% ha evitato di parlare della propria vita privata, il 31,9% ha limitato i rapporti con colleghi fuori dall’orario lavorativo, e quasi una su cinque ha evitato eventi aziendali. 

Il timore dell’outing è concreto: il 31,2% ha subito la rivelazione non consensuale del proprio orientamento sessuale da parte di un’altra persona.

Il 57,1% delle persone TNB (trans e non binarie) e il 41,4% delle persone LGB (cis lesbiche, gay e bisessuali) percepisce di aver vissuto uno svantaggio professionale legato alla propria identità di genere o orientamento sessuale. 

In tutte queste situazioni, se da una parte il passing  – o più spesso il covering, la copertura volontaria – protegge, dall’altra comporta un costo alto: perdita di spontaneità, stress continuo, minore coinvolgimento, senso di isolamento. 

Un dato trasversale che fa riflettere: tra le persone LGB e quelle TNB che hanno subito discriminazioni o molestie sul lavoro, oltre il 70% non ha intrapreso alcuna azione. Né denunce, né richieste formali di supporto. La sfiducia nei meccanismi di tutela è forte e troppo spesso la responsabilità viene fatta ricadere su chi subisce, non su chi discrimina.

Questi numeri raccontano quindi molto più di una condizione individuale. Raccontano un sistema che spinge le persone all’invisibilità, che non riconosce il valore della diversità e lascia sole le persone quando cercano protezione. E ci ricordano che non basta “tollerare”: serve cambiare profondamente la cultura organizzativa, perché nessuna persona debba più scegliere tra autenticità e sopravvivenza.

Dalle policy alla cultura aziendale: come agire

Negli ultimi anni, molte aziende italiane hanno fatto passi avanti importanti in termini di inclusione LGBTQIA+. Secondo i dati dell’indagine LGBT+ Diversity Index 2024 di Parks – Liberi e Uguali, il 93% ha adottato una policy di non discriminazione su orientamento sessuale e identità di genere, e l’86% prevede sanzioni per chi la viola. 

Ma il gap tra policy scritte e cultura aziendale vissuta è ancora profondo. E per colmarlo, serve un cambio di passo concreto.

D’altronde, spiega il report di Parks – Liberi e Uguali, solo il 35% delle aziende ha adottato politiche scritte per accompagnare l’affermazione di genere delle persone trans, mentre è stato attivato un sistema formale di monitoraggio dell’efficacia delle policy in uno scarso 24% delle aziende. 

In mancanza di strumenti operativi, regole condivise e ambienti sicuri, il rischio è che le policy restino un esercizio di stile e non diventino mai cultura diffusa.

Come uscire da questo impasse? Le raccomandazioni più efficaci si muovono su sei assi di intervento:

1. Impegno della leadership: CEO e top management devono essere i primi sponsor dell’inclusione, anche con la propria visibilità. La ricerca Inclusion @ Work di Deloitte del 2023 segnalava per esempio che la presenza di leader LGBTQIA+ che hanno fatto coming out è stata un fattore determinante nella scelta di un’azienda per oltre il 50% dei candidati.

2. Politiche inclusive a 360°: Inclusione significa anche estendere i benefit familiari a genitori non riconosciuti, prevedere email e badge con il nome di elezione, garantire bagni gender neutral, supportare economicamente l’affermazione di genere, ma anche costruire una filiera inclusiva – dal procurement ai clienti.

3. Formazione capillare e mirata: Secondo il LGBT+ Diversity Index 2024, l’84% delle aziende ha svolto formazione sull’inclusione LGBTQIA+; eppure, solo il 29% ha incluso sia HR che management di linea nelle formazioni sull’inclusione durante i percorsi di selezione del personale. Un investimento ancora troppo parziale.

4. Monitoraggio e accountability: La formazione non basta: serve anche un sistema di misurazione che preveda sanzioni per i comportamenti discriminatori e un coinvolgimento di tutta l’organizzazione in indagini di clima che includano l’esperienza delle persone LGBTQIA+.

5. Empowerment e supporto concreto: I network interni di persone LGBTQIA+ (Employee Resource Group o ERG) sono presenti solo nel 44% delle aziende, secondo la ricerca di Parks – Liberi e Uguali. Quando esistono, sono spazi vitali di confronto e advocacy. Fondamentale è anche offrire supporto psicologico e assistenza nei percorsi di affermazione di genere.

6. Advocacy pubblica: Le aziende hanno una responsabilità che va oltre le mura dell’ufficio e che deve manifestarsi anche in altri contesti – sui social, nei media, nei luoghi istituzionali: è importante difendere i diritti LGBTQIA+, collaborare con associazioni e agire contro le disuguaglianze anche laddove la legge tace o arretra.

Essere visibili senza dover combattere

Molte persone LGBTQIA+ scelgono di rimanere nel passing non solo per paura, ma anche per strategia. Perché, oggi, la visibilità resta ancora un privilegio: è più accessibile a chi ha un ruolo consolidato, un contesto lavorativo sicuro o una rete di supporto. Per chi lavora nella precarietà, in territori meno inclusivi o in ambienti aziendali ancora informali nelle tutele, fare coming out può comportare rischi troppo alti.

Per questo parlare di passing non significa giudicare, ma riconoscere che la pressione a conformarsi è spesso la condizione implicita per lavorare e vivere più serenamente.

L’inclusione, allora, non si misura solo nelle policy, ma nella possibilità concreta che si lascia alle persone del proprio team di essere se stesse senza dover negoziare ogni giorno il proprio posto. 

Non si tratta di chiedere a tutte le persone LGBTQIA+ di essere out, ma di costruire contesti in cui non esserlo non sia più l’unica scelta per proteggersi. Contesti in cui visibilità e serenità non siano due possibilità in conflitto. E questa, oggi, è una delle sfide più urgenti per chi guida le aziende: trasformare l’inclusione da dichiarazione di intenti a condizione abilitante.

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