Ridere come atto politico

*questo contenuto è stato scritto per Valore D da Francesco Cicconetti, autore e divulgatore per la comunità transgender

Nel 2018 non avrei mai pensato di poter utilizzare i commenti transfobici che ricevo come biografia del mio profilo Instagram. Da un anno a questa parte, invece, è proprio questa rubrica mensile la preferita non solo della mia community, ma anche la mia.

“L’insetto stecco sembra un ramo, ma sempre insetto stecco è”: questo è il commento che ho scelto per il mese di giugno, che coincide con il Pride Month. Non riesco a leggerlo senza riconoscerne l’assurdità e originalità. Nonostante tutto, mi diverte.

Con i commenti transfobici gioco in tanti modi: li leggo come se fossi un pilota d’aereo, li recensisco come temi scolastici, ci creo canzoni, sono parte dello spettacolo di stand up cui sto lavorando.

Giocare con l’odio che le persone mi riversano addosso costantemente è una forma nuova, per me, di comunicazione. Nel 2018 non credevo che sarei mai stato in grado di farlo perché, al tempo, l’odio per me non aveva nulla di divertente. Quelle parole non facevano altro che confermare i miei stessi pensieri: sono un ragazzo trans, quindi non sarò mai un ragazzo “vero”, mi mancherà sempre qualcosa, mi odierò per sempre, non sarò mai felice.

D’altronde, la cultura e la società in cui sono cresciuto mi avevano sempre insegnato questo.

I media, quelle poche volte che citavano persone transgender lo facevano per raccontarne gli abusi subiti o per rafforzarne lo stigma di persone infelici. I pochi film o serie tv che trattavano il tema lo facevano in maniera semplicistica, stereotipata e intrisa di pietà. Io mi sentivo quella creatura; sì, creatura, perché quel modo di parlare della mia storia mi privava della mia identità di essere umano indipendente, adulto e consapevole e mi riduceva a un bizzarro essere verso cui provare pena.

L’ironia, oggi, è il mio strumento di divulgazione preferito, ma arrivarci è stata una conquista. È stato possibile grazie a diversi fattori: un percorso di psicoterapia e autoconsapevolezza che ha enormemente rafforzato la mia identità, rendendola impermeabile a giudizi beceri e superficiali; la mia rete sociale; la forza che altre persone transgender hanno avuto nell’esporsi e rappresentare la nostra comunità, insegnandomi molto su me stesso e su ciò che avevo da decostruire; il grande desiderio di portare una narrazione diversa da quella che avevo sempre visto e proposto a mia volta: una comunicazione leggera, finalmente.

Ho smesso di desiderare di mostrarmi formale, e ho optato per una versione più autentica e sbavata di me. Mi sono dato la possibilità di essere un ragazzo transgender che sbaglia, che ironizza su sé stesso, che usa i propri canali anche per ridere di qualcosa di violento come la transfobia insieme ad altre persone trans* e alleate, e non solo per spiegarla.

Ho deciso di essere visibile nella mia interezza, per dire che il mio modo di essere è una possibilità tra tante, quante ne sono concesse alle persone cisgender.

Ultimo ma non meno importante, l’ironia l’ho imparata grazie alle persone transgender che fanno stand-up, e mi sento di citarne alcune: Laura Pusceddu, Diego Piemontese, Ian Harvie, Julia Scotti, Mae Martin, Robin Tran.

Assistere a pezzi comici che deridono la transfobia e raccontano della transgenerità mi ha aperto un mondo e mi ha insegnato che nelle nostre storie c’è molto di più del dolore, della serietà e della compostezza. Mi hanno insegnato che la rabbia più che legittima che proviamo può essere veicolata anche con ironia, perché non accettiamo più di sentirci obbligati e limitate a piangerci addosso.

Il role modeling è anche questo, immagino: allargare il cerchio delle possibilità.

Perché, per le comunità marginalizzate è difficile vedere una rappresentazione di sé complessa e stratificata, con corpi diversi, caratteri e atteggiamenti diversi, gusti diversi, orientamenti sessuali diversi; ne consegue che è difficile immaginare di essere anche noi, appunto, complessi e stratificati.

È difficile immaginarsi divertiti. Felici. Adulti. Vivi.

Anche per questo esistono momenti come il Pride: per permetterci di esistere fuori dalla narrazione tragica che ci viene spesso cucita addosso. Il Pride è festa, ma non solo: usa i colori, il rumore e la musica come atto politico e collettivo che trasforma la marginalità in presenza. È uno spazio, per molte e molti l’unico possibile, in cui ci vediamo moltiplicati: nei corpi, nelle età, negli stili e anche nel modo di lottare.

Il Pride ci ricorda che la nostra identità non può e non deve essere scritta su un copione, ma da costruire interamente secondo il nostro ideale. Lì, possiamo anche immaginarci il futuro.

Troviamo conferma che anche noi potremo invecchiare, innamorarci, avere voce e ridere.

Siamo stati così abituati a essere derisi e a subire l’ironia che per troppo tempo non abbiamo potuto deridere né deriderci, non abbiamo potuto immaginare di raccontare la nostra storia senza commuovere e compiangerci, senza parlare di dolore, abbandono, disfunzionalità, rimpianti.

Un mondo in cui la transgenerità cammina per strada con gioia o sale sul palco per ridere di sé stessa non è mai stata concepibile. Per me, era impensabile anche riuscire a schernire l’ennesima persona che mi interpella senza vergogna e pudore circa il mio corpo, invece oggi uno dei miei video più amati parla proprio di questo, e la ricorrenza della bio del mese ormai è un momento di divertimento collettivo, tanto che alcune frasi sono diventate slogan.

Con questo voglio che le persone trans*, specie quelle più giovani, sappiano che la lotta a volte può anche essere leggera, che è nostro diritto lasciarci andare.

E che un mondo in cui siamo divertiti, felici, adulti e vivi è possibile.

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