Chi include chi? Perché l’inclusione è (ancora) una questione di potere

Negli ultimi anni, anche nel contesto italiano, l’espressione “diversità e inclusione” è diventata chiave in moltissimi contesti organizzativi ed è sempre più comune trovarla tra i valori aziendali, nei piani di sviluppo HR o nelle proposte formative. 

È però più raro che ci si fermi a chiedersi: di che tipo di inclusione stiamo parlando? Chi ha il potere di includere? E cosa accade quando questo potere resta nelle mani di chi ha sempre occupato il centro?

Queste domande iniziano ad affiorare anche nel dibattito italiano, dove sempre più voci si interrogano sulla sostenibilità di una narrazione inclusiva che non decentra davvero. 

Nel primo capitolo di Scrivi e lascia vivere (Flacowski, 2022), l’autrice Alice Orrù avverte che il termine “inclusione” rischia di trasformarsi in un’etichetta vuota se usato ovunque senza corrispondere a un reale cambiamento. Eppure, nota, non possiamo abbandonarlo del tutto: proprio perché viviamo in una società fondata sull’esclusione, la parola inclusione resta utile per denunciare la struttura del problema.

Per evitare questo svuotamento, l’autore Fabrizio Acanfora propone di spostare lo sguardo dal concetto di inclusione a quello di convivenza delle differenze: una prospettiva in cui non c’è un soggetto dominante che accoglie, ma una collettività che si ridefinisce nelle relazioni tra pari.

Un ragionamento simile emerge anche in ambito linguistico, dove la sociolinguista Vera Gheno ha proposto di sostituire l’espressione “linguaggio inclusivo” con linguaggio ampio; il cambio di paradigma mette al centro non l’atto del “far entrare” chi è fuori, ma la responsabilità di allargare lo spazio comunicativo, senza gerarchie implicite.

Sono prospettive diverse, ma che convergono su un punto: l’inclusione, se non messa in discussione, rischia di replicare proprio quei meccanismi di esclusione che vorrebbe combattere.

L’inclusione che non cambia le strutture

Un’immagine potente, che racconta bene i limiti di un’inclusione solo formale, viene da Vernā Myers, consulente statunitense esperta di diversità, equità e inclusione. 

Durante una sua celebre conferenza al Women’s Leadership Forum del 2015, Myers ricorda che la scuola specialistica in cui si è laureata come avvocata, la Harvard Law School, ha ammesso le prime studenti donne solo nel 1953. Una pietra miliare importante, senza dubbio, se non fosse che nell’edificio della scuola non erano previsti i bagni femminili: le donne erano finalmente incluse, sì, ma lo spazio che le avrebbe accolte non era cambiato. In altre parole, l’istituzione aveva modificato ben poco di sé per renderle davvero parte della comunità accademica.

Questo esempio rivela una verità scomoda: non basta “far entrare” se le strutture restano le stesse. Se rimane solo un accesso formale, l’inclusione può trasformarsi in una forma di esclusione più sottile: sei dentro, ma non a pieno titolo; sei presente, ma a condizione di adattarti.

Per spiegare questa dinamica, Myers ha coniato una delle metafore più citate nel dibattito internazionale sulla diversità e inclusione: “Diversity is being invited to the party. Inclusion is being asked to dance.” La diversità è l’invito alla festa, l’inclusione è ricevere l’invito a ballare, cioè l’esperienza attiva, la possibilità di contare davvero.

Ma se la musica resta sempre scelta dalle stesse persone o gruppi dominanti, anche quella danza rischia di essere un rituale vuoto. Per questo il concetto di inclusione oggi deve essere capace di trasformare gli spazi e i linguaggi, e di conseguenza riscrivere le regole.

Quando l’inclusione è solo linguaggio istituzionale

Se l’esempio della Harvard Law School mostra in concreto cosa significhi “essere incluse senza essere davvero accolte”, il lavoro della ricercatrice queer e antirazzista Sara Ahmed aiuta a capire perché accade.

Nel suo libro On Being Included. Racism and Institutional Life (Duke University Press, 2012), Ahmed racconta cosa succede quando le organizzazioni adottano il linguaggio della diversità come parte delle proprie politiche ufficiali. Si istituiscono comitati, si redigono dichiarazioni di intenti che finiscono in corposi report.

Ma il rischio, dice Ahmed, è che l’inclusione diventi soprattutto un discorso: una forma di autopromozione che mantiene intatti i rapporti di potere interni.

Ahmed si concentra in particolare sul razzismo istituzionale. Nelle università e nelle aziende anglosassoni che ha osservato, le persone nere o razzializzate spesso si ritrovano in una posizione ambigua: sono “la diversità” dentro uno spazio che resta pensato da e per altri. Non portano solo le proprie competenze, ma anche il peso di rappresentare un’intera categoria, di farsi carico delle mancanze dell’istituzione.

Questa analisi si può allargare anche alle aziende italiane, dove chi appartiene a gruppi minorizzati – per appartenenza etnica o culturale, per orientamento sessuale o identità di genere, o per una condizione di disabilità – si trova spesso a navigare spazi che parlano di inclusione, ma che sono costruiti attorno a norme implicite. 

Ne ha parlato, pur senza concentrarsi sul solo mondo aziendale, anche la scrittrice italiana Nadeesha Uyangoda nel suo libro L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd, 2021). L’inclusione, scrive, può facilmente ridursi al ruolo di “token”: una presenza simbolica che serve a mostrare la capacità inclusiva di chi detiene il potere narrativo, senza mai mettere al centro la persona stessa.È un fenomeno che riconosciamo anche nei luoghi di lavoro. Pensiamo, per esempio, alla persona nera invitata nei dibattiti interni solo per parlare di razzismo, o all’unica collega con una disabilità visibile scelta per comparire nelle foto istituzionali. Presenze che dovrebbero ampliare lo spazio comune, ma che finiscono per diventare decorazioni inclusive di un ordine che non si mette in discussione.

In questo contesto, la responsabilità di rendere l’organizzazione più inclusiva ricade quasi sempre sulle minoranze stesse. È quello che nella letteratura sul tema viene indicato come fatica da inclusività: il peso costante di dover spiegare, educare e rappresentare. Intanto, chi occupa il centro può continuare a muoversi come se non fosse mai stato chiamato in causa.

Cosa possono fare le aziende?

In un ambiente professionale in cui l’inclusione è diventata uno dei pilastri delle policy aziendali, abbiamo bisogno di farci nuove domande. Come dice Sara Ahmed, è necessario puntare il riflettore sulle strutture e chi le governa, chiedendosi quali discriminazioni, spesso invisibili, restano incorporate nei processi quotidiani.

Per le aziende questo significa, innanzitutto, guardare oltre i documenti ufficiali. Le policy hanno valore solo se incidono sui comportamenti, sui criteri di valutazione e sui percorsi di carriera.

Alcune domande chiave da porsi sono:

  • Chi prende realmente le decisioni nei momenti cruciali, dalla selezione alle promozioni?
  • Quali bias sono impliciti nei linguaggi usati nelle comunicazioni interne o nei colloqui?
  • Le iniziative di inclusione sono affidate a poche persone “simbolo”, o distribuite nell’intera organizzazione?
  • Le differenze vengono considerate un valore da cui imparare, o un “problema da gestire”?

Per rispondere a queste domande, le aziende che scelgono un approccio trasformativo possono lavorare su più livelli:

  • Processi di selezione e avanzamento: per rendere trasparenti i criteri e ridurre il peso dei pregiudizi impliciti.
  • Formazione continua: non solo momenti spot, ma percorsi che coinvolgano leadership e team.
  • Spazi di ascolto: che permettano alle persone che portano esperienze diverse di esprimersi senza il timore di essere marginalizzate.
  • Leadership responsabile: capace di lasciare spazio, assumersi rischi e farsi trasformare dal confronto.

Con queste azioni, l’inclusione non è più un orizzonte da raggiungere una volta per tutte, ma una pratica che interroga continuamente i processi e le relazioni, interne ed esterne all’azienda. Non basta annunciarla, serve attraversarla. 

Per le aziende significa accettare che ogni scelta – dal linguaggio alle assunzioni, dalle promozioni alle riunioni quotidiane – porta con sé il segno di chi è riconosciuto e di chi resta ai margini. È lì che si misura la differenza tra un’inclusione di facciata e un cambiamento reale.

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