“Se ha scattato quelle foto, allora voleva che girassero”
“Una persona così esposta sui social deve aspettarsi dei commenti negativi”
“È normale che in chat giri qualche battuta, non farne un caso”
Il 25 novembre è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Di violenza sentiamo parlare in tutte le sue forme: psicologica, fisica, economica, sessuale. E, in tempi più recenti, anche digitale. Un fenomeno, quest’ultimo, in gran parte sommerso che richiede ancora tanto lavoro di sensibilizzazione e divulgazione. Perché la violenza che accade online supera sì i confini degli spazi fisici ma ha ripercussioni concrete sulla vita e sul benessere di chi la subisce.
L’importanza del consenso, anche nel digitale
Gli spazi digitali riempiono le nostre giornate in maniera sempre più pervasiva: ordinare la cena, fare la spesa, prenotare una visita medica, lavorare, sono tutte azioni quotidiane che possono essere svolte online.
La rete, tuttavia, non è un luogo neutro: è abitata da persone reali, che portano con sé valori, stereotipi e schemi mentali radicati. Questi modelli influenzano le interazioni online, riproponendo dinamiche e pregiudizi che conosciamo già nel mondo fisico.
Non è però solo la presenza dei bias a emergere nello spazio digitale: qui ritroviamo anche principi fondamentali, come quello del consenso, che mantiene la stessa importanza che ha nei contesti offline.
Il consenso, infatti, è lo strumento attraverso cui l’utente esprime una scelta libera e informata, comprendendo pienamente le conseguenze dell’uso dei propri dati personali negli ecosistemi digitali. Oggi, tuttavia, alcune forme di violenza digitale – come il revenge porn o la condivisione non consensuale di immagini – si basano proprio sulla violazione del consenso.
I numeri della violenza digitale
Un’analisi di The Fool sulla pornografia non consensuale e sulla consapevolezza degli italiani e italiane sul tema, pubblicata a maggio 2020, afferma che a 1 persona intervistata su 4 è capitato di vedere immagini o video intimi di qualcun altro e che il 5% li ha anche condivisi.
Il dato che più fa riflettere è che l’84% di chi ha condiviso immagini o video intimi di un’altra persona lo rifarebbe: 2 su 3 lo ritengono divertente o non offensivo e 1 su 4 si sente autorizzato o autorizzata se non conosce la persona.
Da questi numeri emerge la mancanza di una consapevolezza diffusa ed omogenea della violenza digitale, dei risvolti psicologici per la vittima e delle conseguenze penali per gli autori del reato, anche quando si tratta di una delle forme più conosciute, come la condivisione non consensuale di materiale intimo (SWG per Osservatorio D, 2025).
Infatti, è proprio tra le vittime di pornografia non consensuale e revenge porn che troviamo la quota maggiore (35%) di chi pensa che il fenomeno non costituisca un reato in Italia. In realtà dal 2019 l’ordinamento italiano, all’articolo 612-ter del Codice penale, punisce non solo chi per primo diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito di una persona senza il suo consenso, ma anche chiunque contribuisca a veicolarli.
Quando si parla di educazione al consenso, dunque, non si fa riferimento solo alla sessualità, ma a tutte le interazioni che avvengono in qualsiasi spazio: si tratta infatti della capacità di stare insieme ad altre persone nel rispetto della reciprocità, della libertà di scelta e di autodeterminazione altrui.
Le diverse forme di violenza di genere online
Anche la violenza digitale può assumere diverse forme: alcune più note, come il cyberbullismo, altre meno familiari, come il doxing. Tuttavia, è fondamentale avere una maggiore consapevolezza di tutte le modalità in cui la violenza online può presentarsi per poter agire efficacemente.
L’hate speech di genere consiste in attacchi mirati che istigano e giustificano l’odio, la discriminazione e la violenza contro (in questo caso) le donne. Lo scopo è intimidire e umiliare la vittima, spesso per punirla di aver trasgredito i ruoli di genere, fino a silenziarla.
L’abuso sessuale basato su immagini (Image-Based Sexual Abuse, IBSA) descrive un abuso che, appunto, utilizza immagini e video per umiliare, controllare e violare la vittima. Tra le varie declinazioni di questo genere di violenza troviamo:
- La diffusione non consensuale di immagini intime consiste nella distribuzione ad altri di foto o video a cui la persona raffigurata non ha acconsentito, anche se l’immagine è stata creata consensualmente. Quando la diffusione avviene per vendetta nei confronti della vittima, si parla di revenge porn.
- La sextortion è una forma di estorsione che si basa sul ricatto, sulla minaccia di distribuire materiale intimo che riguarda una persona per costringerla a fornire denaro, favori sessuali o altre immagini.
- I deepfake sono immagini create attraverso l’intelligenza artificiale che sovrappongono il volto della vittima ad altri corpi, spesso in contenuti pornografici. Anche in questo caso, soprattutto se le immagini vengono diffuse in ambito lavorativo, il fine è quello di minare la credibilità e professionalità della vittima ed isolarla.
Il cyberstalking è la persecuzione tramite strumenti digitali, capace di generare nella vittima uno stato di ansia e paura.
Il doxing consiste nella pubblicazione online di dati privati della vittima – come il numero di cellulare, l’indirizzo di casa o il luogo di lavoro – per intimidirla ed esporla ad ulteriori minacce nei luoghi fisici.
Il trolling di genere coordinato consiste in molestie e azioni di hate speech reiterate in una strategia di disturbo massiccia e organizzata, attuata da più persone online per sabotare la vittima, intimidirla e silenziarla puntando sullo sfinimento psicologico.
La violenza digitale nei luoghi di lavoro
Anche i luoghi di lavoro, aprendosi alle innovazioni tecnologiche, sono ormai esposti ai pericoli del digitale. Il lavoro e le interazioni con colleghe e colleghi si svolgono sempre più spesso in spazi online. Chat, caselle di posta elettronica e video-meeting, sono a tutti gli effetti ambienti di lavoro e, dunque, l’organizzazione non può ignorare o rimanere immune ai pericoli.
Con riferimento alla violenza di genere digitale perpetrata nei luoghi di lavoro, si parla di workplace harassment digitale, un termine che racchiude tutte le forme di molestia che utilizzano gli strumenti di comunicazione e collaborazione forniti dall’azienda per perpetrare un abuso.
Anche in questo caso, le modalità sono diverse, ma tutte ugualmente insidiose e lesive.
Le molestie via e-mail o chat sono una manifestazione subdola della violenza di genere digitale che si definisce “a bassa intensità” perché è la loro reiterazione nel lungo periodo a sfinire psicologicamente ed emotivamente la vittima. Ci si riferisce a battute sessiste e commenti a sfondo sessuale o non richiesti sull’aspetto fisico, condivisione di link e contenuti inappropriati.
La condivisione non consensuale di contenuti, siano essi chat, conversazioni private, o post personali di un/a collega, con lo scopo di deriderla o umiliarla.
Le campagne diffamatorie, ovvero la diffusione di false voci sull’incompetenza di un/a professionista per minarne l’evoluzione della carriera professionale.
L’online non è “altrove”
È facile percepire l’online come un mondo a parte, ma il suo essere astratto non può più essere un espediente: la violenza digitale ha sempre degli autori e ha sempre delle vittime.
Anche le aziende non possono sottrarsi agli oneri e alle sfide poste dalle piattaforme digitali. E hanno il potere e la responsabilità di agire per garantire ambienti di lavoro sicuri, inclusivi e rispettosi.
Per questo Valore D e PermessoNegato, con la collaborazione di Fondazione Una Nessuna Centomila, hanno realizzato la policy “Violenza di Genere Online: fenomeni, impatti e strategie di contrasto nel contesto lavorativo” che, in continuità con il primo volume “Dal Silenzio all’Azione”, fornisce alle imprese una guida e un approccio concreto per affrontare le sfide del digitale e contribuire a costruire una società libera dalla violenza.



