Tutto sommato è “meglio così che disoccupate” si dicono molte donne italiane: accettare il part time o perdere il lavoro. Accettare la riduzione di orario e stipendio, pur sapendo che la mole di lavoro non sarebbe diminuita. Sono le “forzate del part time”, come le definisce Elle in un recente articolo, un esercito di lavoratrici in costante aumento anno dopo anno, in un Paese in cui tasso d’occupazione femminile è al 50,3% secondo gli ultimi dati Istat.
Il part-time involontario penalizza donne, anche in Europa
Negli ultimi 10 il numero di persone che hanno accettato un impiego a orario ridotto è più che raddoppiato (+107,8 per cento, dati Istat). Nel 2008 erano 1,3 milioni, nel 2018 sono diventate 2,8 milioni. E, ancora una volta, sono le donne le più colpite da questo fenomeno: 6 su 10 non lavorano a tempo pieno per espressa richiesta del datore di lavoro. Se fino a pochi anni fa le donne chiedevano il part time per riuscire a seguire meglio i figli e la famiglia, oggi si vedono costrette a subirlo. «Mi hanno detto che per questioni economiche l’azienda sarebbe stata costretta a rivedere il suo organico. Unica alternativa: ridurre le ore e trasformare il contratto da full time a part time».
E anche in altri Paesi europei la situazione non cambia. Nell’Ue nel 2017, il 32 % delle donne occupate lavora part-time, contro il 9 % degli uomini. Anche dove l’occupazione femminile è più alta si raggiungono le percentuali massime anche di occupate part time: 40% in Gran Bretagna, quasi il 50 per cento in Germania e quasi l’80 per cento in Olanda.
Effetti su retribuzioni, prospettive di carriera e pensioni
Un’indagine dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro, “Donne al lavoro: o inattive o part-time” che analizza cause e riflessi del part-time involontario per le donne e gli effetti su retribuzioni e future pensioni. E le conseguenze si vedono direttamente già dalla prima busta paga: nel 2017 il 36% delle donne ha ricevuto uno stipendio mensile inferiore a 780 euro. Nella classe di reddito da 1.500 a 2.000 euro gli uomini sono il doppio delle donne, mentre per i redditi ancora più alti il rapporto è di 1 donna ogni 3 uomini.
L’uso dell’orario ridotto ha conseguenze anche sul piano pensionistico. Condizioni discontinue di lavoro e a tempo parziale non consentono, infatti, di alimentare in modo continuo le posizioni previdenziali utili all’accesso alla pensione di vecchiaia. Dai dati Inps sui beneficiari di pensioni in Italia è chiaro che, nonostante le donne beneficiarie di prestazioni pensionistiche siano 8,4 milioni (862 mila in più degli uomini), solo il 36,5% beneficia della pensione di vecchiaia – frutto della propria storia contributiva – contro il 64,2% degli uomini. Le donne, poi, laddove arrivino a percepire la sola pensione di vecchiaia, si vedono riconosciuto un assegno mensile inferiore di un terzo rispetto a quello degli uomini.
Per approfondire il tema puoi consultare l’indagine “Donne al lavoro: o inattive o part-time” dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro