Hai mai pensato quanto l’aspetto fisico influenzi, anche inconsciamente, le opportunità professionali?
In fase di selezione, durante un colloquio, nella scelta di un profilo per una promozione, la percezione dell’aspetto estetico può ancora condizionare valutazioni e decisioni. Questo fenomeno ha un nome: lookism.
Nonostante sia poco conosciuto nel linguaggio comune, il lookism è molto presente nelle realtà lavorative e può avere effetti significativi sulla vita professionale delle persone.
Cos’è il lookism: definizione e origini del termine
Il lookism è la discriminazione basata sull’aspetto fisico reale o percepito di una persona. Si parla di lookism quando una persona viene favorita o penalizzata per il suo aspetto, che si tratti di:
- altezza;
- caratteristiche somatiche;
- corporatura;
- età percepita;
- tono della pelle o altre peculiarità estetiche.
Il termine ha origini nelle riflessioni degli anni Settanta sul corpo come criterio di distinzione sociale, ma sono poi gli studi economici e culturali a evidenziarne le conseguenze sul lavoro.
Nel 1994, Hamermesh e Biddle pubblicarono Beauty and the Labor Market, dimostrando che negli Stati Uniti una persona percepita come attraente guadagnava in media tra il 5% e il 15% in più rispetto a una ritenuta meno attraente.
Più di recente, Deborah Rhode, nel suo The Beauty Bias. The Injustice of Appearance in Life and Laws (Oxford University Press, 2010), ha analizzato il fenomeno come forma invisibile di discriminazione, sottolineando quanto i pregiudizi estetici esercitino un impatto sostanziale nonostante i limiti legali.
La necessità di parlare di lookism nasce infatti dalla consapevolezza che l’aspetto fisico, esattamente come il genere, la razza o l’età, diventa un parametro di valutazione sociale.
Essere ritenuti “piacevoli” secondo standard dominanti può aprire porte, mentre essere percepiti come “non conformi” le può chiudere.
Come sottolinea Rhode, questa forma di discriminazione è tanto pervasiva quanto poco riconosciuta, proprio perché culturalmente normalizzata.
Lookism e mondo del lavoro: dove si manifesta
Il lookism può influenzare ogni fase della carriera:
- colloqui di selezione;
- accesso a ruoli manageriali o di rappresentanza;
- assegnazione di progetti di visibilità;
- percezione del “potenziale di leadership”.
Secondo l’indagine “Opinioni e vissuti relativi ai canoni estetici nel mondo del lavoro” (Osservatorio D e SWG, 2024) la metà dei lavoratori e lavoratrici riconosce un’influenza degli standard estetici sulla propria carriera o sul riconoscimento lavorativo. Tale percezione è più marcata tra le donne (60%) e tra le persone giovani (71%).
Anche in fase di colloquio, il 73% delle persone, che sale al 78% se si considerano solo le donne, ritiene che l’estetica conti quanto, se non più, della preparazione.
Numerosi studi internazionali hanno in effetti documentato il fenomeno del “beauty premium” (premio di bellezza), secondo cui le persone percepite come fisicamente più attraenti ottengono in media salari più alti, maggiore accesso a opportunità di carriera e valutazioni più positive di competenza e leadership.
L’altezza, per esempio, può influenzare in modo significativo il percorso professionale. Diversi studi internazionali riportano che, in media, gli uomini più alti accedono più facilmente a ruoli di leadership e ricevono stipendi più elevati. Un articolo de Il Post dedicato al fenomeno cita un’analisi pubblicata nel 2015 dalla rivista Journal of Human Capital, secondo cui un incremento dell’altezza pari a 10–12 centimetri è associato a un aumento salariale compreso tra il 9% e il 15%.
Uno studio di Mobius e Rosenblat (Why Beauty Matters, American Economic Review, 2006), invece, mostrava che, a parità di curriculum, le persone candidate percepite come più attraenti ricevevano valutazioni superiori in termini di intelligenza e capacità.
Ricerche pubblicate da IZA World of Labor evidenziano che questo vantaggio è particolarmente marcato nei ruoli a contatto con il pubblico, ma resta significativo anche altrove.
Al contrario, chi non rientra negli standard estetici dominanti subisce la “penalty for unattractiveness” (penalizzazione per non attrattività), che si traduce in minori probabilità di assunzione e crescita professionale.
Si tratta di una discriminazione che può coinvolgere anche aspetti estetici legati alla libera espressione personale.
In Italia, un approfondimento del Sole 24 Ore ha evidenziato come stereotipi e scelte estetiche personali siano ancora spesso interpretati come segnali negativi, con un impatto diretto sulle opportunità professionali. Per esempio, tatuaggi e piercing visibili continuano a essere percepiti in molti ambienti di lavoro come indicatori di scarsa professionalità o serietà.
Questi fenomeni non sono sempre frutto di scelte esplicite o consapevoli: spesso si innestano su automatismi culturali e associazioni inconsce che collegano l’aspetto fisico a tratti desiderabili come competenza, affidabilità, empatia e autorevolezza.
È in questo terreno fertile che si radicano i bias estetici che influenzano le valutazioni professionali, anche quando chi li esercita non ne è pienamente consapevole.
Ne ha parlato anche la filosofa Maura Gancitano nell’intervista “Bellezza e potere: standard estetici e disparità nel mondo del lavoro”, sottolineando quanto gli standard imposti abbiano radici culturali profonde e siano ancora molto presenti nel mondo aziendale.
È poi importante ricordare che il lookism raramente si presenta da solo: si intreccia e si amplifica in combinazione con altre forme di discriminazione strutturale, tra cui sessismo, razzismo, abilismo e ageismo.
Le donne, per esempio, subiscono una pressione estetica molto più marcata rispetto agli uomini in contesti lavorativi.
Secondo la già citata indagine di Osservatorio D e SWG, il 53% delle persone intervistate reputa che le donne considerate belle ottengano più fiducia da parte di colleghi e responsabili. Una convinzione più radicata negli uomini, visto che lo pensano 6 uomini su 10. Al contrario, solo 1 persona su 3 reputa che gli uomini considerati belli facciano più carriera al lavoro rispetto agli altri.
Alle donne afrodiscendenti, invece, è spesso richiesto in modo implicito di conformarsi a standard estetici eurocentrici, arrivando a considerare capelli afro naturali o treccine come “poco professionali” (un pregiudizio noto come hair discrimination, ancora oggi oggetto di battaglie legali, come dimostra il movimento CROWN Act negli Stati Uniti).
A questi meccanismi si aggiunge il fenomeno del colorism: persone con tonalità di pelle più scura o con tratti non conformi ai canoni estetici occidentali possono incontrare barriere nell’accesso al lavoro e nelle progressioni di carriera, come confermato da numerose ricerche internazionali e articoli di settore.
Anche le persone con disabilità o condizioni croniche possono essere escluse sulla base di preconcetti estetici legati al corpo normativo.
Le persone di età più alta, infine, subiscono ageismo intrecciato con lookism: rughe, capelli grigi o segni dell’età vengono letti come perdita di “energia” o “capacità di adattamento”.
Questi meccanismi contribuiscono a rendere il lookism una delle forme più pervasive ma meno riconosciute di esclusione sul lavoro.
Perché il lookism è una questione culturale e aziendale
Il lookism prospera in una cultura che associa l’immagine esteriore a valori di professionalità e affidabilità.
Spesso chi seleziona o valuta performance lo fa senza rendersi conto di quanto i bias estetici stiano influenzando il giudizio. Per questo le organizzazioni devono sviluppare una consapevolezza critica su questi automatismi e costruire pratiche di valutazione realmente basate su competenze e risultati.
Cosa possono fare le organizzazioni (e le persone)
Contrastare il lookism richiede alle organizzazioni un approccio consapevole e strutturato. Il primo passo è riconoscere l’esistenza di questo bias: il lookism tende infatti a passare inosservato, perché socialmente normalizzato.
Le aziende possono intervenire a più livelli:
- formazione specifica per recruiter, manager e team di selezione sui bias estetici e le loro implicazioni;
- definizione di criteri di valutazione chiari e trasparenti, che si concentrino su competenze, risultati e comportamenti, non sull’aspetto esteriore;
- revisione delle policy di dress code, evitando regole rigide o prescrittive che penalizzano stili personali, culture diverse, o caratteristiche fisiche non conformi agli standard dominanti;
- promozione di una cultura aziendale che valorizzi le differenze anche sul piano dell’immagine: parlare apertamente del tema, aprire spazi di confronto, coinvolgere employee resource groups o gruppi di lavoro su diversità e inclusione.
Anche le singole persone possono contribuire, sviluppando una maggiore consapevolezza dei propri automatismi di giudizio e scegliendo di intervenire quando assistono a situazioni discriminatorie legate all’aspetto fisico.
Riconoscere e contrastare il lookism significa avvicinarsi a un ambiente di lavoro più giusto. È un invito a smascherare i giudizi silenziosi, a rimettere al centro la competenza e il valore umano. Perché ogni persona merita di essere valutata per ciò che fa, non per come appare.