Merito, privilegio e opportunità: il lato nascosto delle disuguaglianze

Nel discorso pubblico, il concetto di merito è da tempo diventato una parola chiave: una promessa di equità, di riconoscimento del talento, di possibilità di affermazione personale. Il mondo del lavoro, in particolare, è raccontato spesso come il palcoscenico neutrale dove le persone più capaci emergono grazie alla sola forza delle proprie competenze e del proprio impegno.

Eppure, come scriveva Shata Diallo in un articolo su Alley Oop – Il Sole 24 Ore, questa è una visione che non regge alla prova della realtà. La meritocrazia è una ideologia, osserva Diallo, perché «il merito è apprezzato solo da chi la cima della scala sociale l’ha già raggiunta. È infatti probabile che alla domanda “Senti di vivere in un ambiente meritocratico?” la risposta varia a seconda se sia già stato riconosciuto il proprio talento oppure no.»

Il merito, dunque, da solo non basta a spiegare le traiettorie di successo, né a giustificare le disuguaglianze che persistono anche nei contesti professionali.

Il mito della neutralità

Alla base della retorica meritocratica, c’è l’idea, tanto potente quanto fallace, che le condizioni di partenza siano uguali per tutte le persone. Che il talento si manifesti in modo oggettivo e trasparente e che l’impegno personale possa, da solo, superare qualsiasi barriera.

Non è un caso che il termine “meritocrazia” sia nato come critica e non come modello: fu coniato nel 1958 da Michael Young nel saggio satirico The Rise of the Meritocracy, per descrivere una società ingiusta in cui l’élite, convinta di aver meritato ogni privilegio, diventava impermeabile al cambiamento e all’equità.

La realtà è ben diversa, perché il merito non può essere separato dal contesto socioeconomico, culturale e relazionale in cui le persone nascono e crescono.
Chi nasce in un ambiente privilegiato (con accesso a istruzione di qualità, reti sociali e professionali solide, assenza di discriminazioni sistemiche) parte già con una serie di vantaggi competitivi invisibili, che il sistema fatica a riconoscere o a riequilibrare.

Una fotografia impietosa arrivava già dal rapporto OCSE A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility del 2018, secondo cui in Italia la mobilità sociale è tra le più basse d’Europa: solo circa il 2% di chi nasce in famiglie a basso reddito riesce a raggiungere i livelli più alti di benessere economico. Un dato che rivela quanto il talento e l’impegno individuale siano spesso soffocati da barriere sistemiche. Gli aggiornamenti più recenti non fanno che confermare questa tendenza. Nel rapporto On Shaky Ground? pubblicato dall’OCSE nel 2023, si evidenzia come l’insicurezza economica e le fluttuazioni del reddito stiano ulteriormente compromettendo la mobilità sociale in Europa, rendendo ancora più difficile per molte persone trasformare talento e impegno in reali opportunità di crescita.

Privilegi invisibili e disuguaglianze strutturali

Parlare di privilegio del merito significa allora riconoscere che il talento e l’impegno individuale si intrecciano inevitabilmente con condizioni esterne, spesso date per scontate da chi le possiede. E che il mondo del lavoro, lungi dall’essere uno spazio neutro, è attraversato da disuguaglianze strutturali profonde: di genere, di classe sociale, di appartenenza etnica, di abilità, di orientamento sessuale.

Nel suo pezzo Tutto merito della DEI, la giornalista Enrica Nicoli Aldini riprende e traduce questa considerazione del sociologo statunitense Musa Al-Gharbi, che di recente ha pubblicato il libro We Have Never Been Woke: The Cultural Contradictions of A New Elite (Princeton University Press): 

«Alcune persone crescono in famiglie stabili, in comunità sicure con buone scuole e con genitori che hanno denaro, capacità, conoscenze ed energie per aiutarle a sviluppare e sfruttare il loro capitale umano. Sono quindi ben posizionate per prosperare su basi ‘meritocratiche’. A molte altre mancano questi vantaggi».

Leggendo i dati del Rapporto ISTAT 2024, si deduce che in Italia le disuguaglianze di reddito e di istruzione superiore rimangono tra le più marcate d’Europa, con un impatto diretto sulla possibilità di accedere a occupazioni qualificate e percorsi di carriera. Non è dunque sorprendente che le opportunità professionali non siano distribuite equamente, a prescindere dai talenti individuali.

Sono tutti dati e riflessioni che interpellano direttamente chi lavora nei contesti aziendali: selezionare, valutare, promuovere senza mettere in discussione i criteri dominanti rischia di consolidare anziché abbattere le disuguaglianze.

Quale merito vogliamo riconoscere?

Costruire ambienti di lavoro davvero inclusivi richiede quindi un cambio di paradigma. Non si tratta di negare l’importanza del talento o dell’impegno ma di ampliare lo sguardo, interrogarsi sulle condizioni che permettono a certi talenti di emergere più facilmente e su quelle che invece soffocano il potenziale di tante persone prima ancora che possa esprimersi.

Un approccio consapevole al merito significa:

  • riconoscere i privilegi invisibili;
  • rimuovere gli ostacoli strutturali;
  • promuovere politiche attive di equità, mentoring, accesso alle opportunità.

Solo così il merito potrà davvero essere una leva di crescita collettiva e non una narrazione di esclusione mascherata.

Nel mondo del lavoro attuale, segnato da sfide globali, trasformazioni culturali e richieste sempre più forti di giustizia sociale, i concetti di merito e meritocrazia vanno ripensati.
Non come premi da assegnare ma come il risultato di un sistema che sa riconoscere e valorizzare i talenti nella loro diversità, a partire dalla consapevolezza delle disuguaglianze che li attraversano.

Ripartire da qui non è solo un atto di giustizia, è un investimento nel futuro.

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