IDAHOBIT: ogni parola conta. Intervista a Matteo Mammini

Il 17 maggio si celebra la Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Bifobia e la Transfobia (IDAHOBIT), istituita nel 2004 per sensibilizzare le persone sulle discriminazioni e le violenze subite dalla comunità LGBTQIA+. La scelta di questa data non è casuale: il 17 maggio del 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. 

Nonostante i progressi compiuti, i dati evidenziano che la strada verso l’uguaglianza è ancora lunga. La Rainbow Map 2024 di ILGA-Europe colloca l’Italia al 36° posto su 49 paesi europei per rispetto e tutela dei diritti LGBTQIA+. Uno scenario che invita a interrogarsi sulla responsabilità collettiva di costruire spazi più giusti, sicuri e rispettosi per tutte le persone.  

In questo contesto, il linguaggio gioca un ruolo cruciale. Le parole che scegliamo – o che evitiamo – possono diventare strumenti di esclusione o di accoglienza, di discriminazione o di giustizia. 

Per approfondire questi temi, abbiamo intervistato Matteo Mammini, avvocato, formatore e attivista, da anni in prima linea nella difesa dei diritti delle persone LGBTQIA+, che ci ha offerto una riflessione sul potere delle parole e sull’importanza di un’azione collettiva per contrastare l’omolesbobitransfobia. 

La parola a Matteo Mammini

Linguaggio

Il linguaggio è uno strumento potente, capace tanto di ferire quanto di includere. Una recente indagine dell’Osservatorio D (SWG e Valore D) mostra che oltre la metà delle persone intervistate (56%) riconosce questo potenziale e l’importanza di prestare attenzione alle parole. Che cosa ci dice questo dato sul cambiamento in atto nella società? E quali parole dovremmo imparare a usare — e quali a disimparare — per contribuire a un cambiamento culturale contro l’omobitransfobia?

Il dato è rincuorante: mostra una crescente consapevolezza collettiva del potere del linguaggio, soprattutto nel contrasto all’odio e alla violenza. Le parole possono essere il primo segnale di un clima che, se non arginato, può degenerare in azioni discriminatorie e passare ad una vera e propria violenza fisica; tuttavia, mi resta il dubbio su quante persone siano davvero disposte a modificare il proprio modo di esprimersi. Spesso, battute e stereotipi sopravvivono anche in contesti ufficiali, senza allenamento si tende a usare un linguaggio sempre e solo maschile e che quindi non rispetta tutte le soggettività.

Il fatto che se ne parli sempre di più è merito dell’attivismo e del dibattito pubblico. La nostra lingua è precisa e sfumata, è icastica: ogni parola conta. Nella mia scrittura, preferisco utilizzare lo schwa con attenzione anche alla differenza grafica tra singolare e plurale, ma si possono adottare anche altre soluzioni, come l’uso di “persona”, ad esempio “persone LGBTQIA+”.

Bisogna imparare a usare l’acronimo completo e termini che ne derivano o non basarsi su termini che derivano da altri contesti: ad esempio, il termine “mutamento di sesso” è quello richiesto tecnicamente per avviare il procedimento in Tribunale, ma è preferibile sostituirlo con “percorso di affermazione di genere”, più rispettoso e accurato, evitare anche il termine “transizione”, perché rischia di ridurre l’esperienza a un cambiamento lineare o esclusivamente medico. Inoltre, è sconsigliato immagini edulcorate come “comunità arcobaleno” che non rende giustizia alla violenza che questo gruppo sociale subisce quotidianamente, rispettare i pronomi scelti da ciascuna persona, preferire l’aggettivo “trans” se non si conoscono bene le distinzioni tra gli altri termini (es. transgender, non binary etc.), abbandonare espressioni come “scelta di vita” o “diverso”. 

Come ricorda la sociolinquista Vera Gheno, il linguaggio non deve essere solo inclusivo ma ampio: riguarda tutte le persone, non c’è chi sceglie chi sta dentro o sta fuori.

Non è ideologia, è rispetto.

Serve solo allenamento: all’inizio si fa attenzione, poi viene naturale.

Diritti

Si tende spesso a interpretare l’estensione dei diritti come una sottrazione, come se garantire tutele a nuove soggettività significasse toglierle ad altri. Come possiamo superare questa logica del conflitto e far comprendere che i diritti non sono una “coperta corta”, ma un bene che si estende con l’estensione della giustizia?

Mi fa sorridere (amaramente) l’idea della “coperta corta” perché si crede che la giustizia sia sempre un terreno competitivo e limitato: se io ottengo qualcosa allora tu devi perdere; è un po’ quello stereotipo che definisco da “squadra di calcio” dove deve esserci la mia squadra più forte che vince rispetto alla tua che perde, e questo si ripercuote nel rapporto tra le persone che spesso evidenzia uno stile conflittuale.

Rivedo lo stesso concetto ma in chiave più personale; sono cresciuto a Portoferraio, all’Isola d’Elba, e tendo a spiegare facendo un esempio che mi è sicuramente più congeniale:

Se io sono in spiaggia che mi abbronzo, non ti tolgo il sole, puoi abbronzarti anche tu. Ecco i diritti sono la stessa cosa: se io ottengo un diritto non ti tolgo niente, puoi, potenzialmente, ottenerlo pure tu”.

Diverso se questi diritti sono destinati esclusivamente ad un gruppo di persone basandoci, ad esempio, sul loro orientamento sessuale o sulla loro identità di genere, allora non sono diritti, si chiamano privilegi, come ad esempio il matrimonio, l’adozione, la genitorialità, la mancanza del riconoscimento dei crimini d’odio, etc.

Riconoscere le specificità di una soggettività non è omologazione ma equità, uguaglianza, senso di giustizia perché la vera giustizia raggiunge un senso concreto, e una reale efficacia, quando nessuna persona viene lasciata indietro.

Discriminazioni a lavoro

Secondo l’indagine ISTAT-UNAR, oltre il 60% delle persone LGBTQIA+ nasconde la propria vita privata sul posto di lavoro. Che cosa ci racconta questo dato del clima culturale nei contesti professionali? E quanto pesa, dal punto di vista sociale e personale, non trovare parole, modelli o spazi in cui riconoscersi pienamente?

In un clima di paura, come potrebbe essere diverso? In molti luoghi di lavoro, fare coming-out significa esporsi a ostracismo, mobbing o persino al rischio (reale o percepito) di licenziamento. Il dato è allarmante, e c’è da chiedersi quante persone abbiano minimizzato il proprio disagio per timore di essere identificate: “Che importa se sanno della mia vita?”, si dicono.

Questo rende tutto più grave. Molte aziende stanno iniziando a capire il costo umano, professionale ed economico della mancata attenzione all’argomento, altre stanno abbandonando l’idea che possa essere utile. La verità è che per mettere in campo iniziative efficaci è necessario affidarsi a enti esperti in materia di orientamento sessuale-affettivo e di identità di genere. Pensare che “tanto le discriminazioni si somigliano” è un errore: ignorare le specificità fa più danni che benefici.

Nascondersi sul lavoro mina il benessere psicologico, costringe a vivere una doppia vita, danneggia relazioni, produttività e creatività: si parla di minority stress, ampiamente documentato, ed è causa dell’aumento del rischio di malattie (quindi meno giorni a lavoro e perdite economiche, oltre ad un costo per la società tutta) e rende l’ambiente di lavoro più povero e meno umano.

Libertà di espressione

Nel dibattito pubblico è sempre più frequente sentire affermazioni come “non si può più dire niente”. Come rispondere a chi percepisce ogni richiesta di rispetto o attenzione verso l’altro come un limite alla libertà di parola?

Questa è una delle affermazioni più strumentalizzate: confonde, volutamente, la libertà di parola con la libertà di critica. Viene spesso usata per alimentare sdegno, e lo sdegno è uno dei motori principali dell’odio.

La risposta si può trovare nel diritto e nella giurisprudenza. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che la libertà di espressione (art. 10 CEDU) comporta doveri e responsabilità e può essere soggetta a restrizioni per tutelare, ad esempio, la reputazione altrui. Nella causa Lilliendahl v. Iceland (2020), la Corte ha stabilito che commenti omofobi non sono protetti dalla Convenzione, in quanto incitano all’odio o alla discriminazione; inoltre, ha ricordato che l’abuso della libertà di parola per diffondere odio può essere escluso dalla protezione della Convenzione come abuso di diritto (art. 17 CEDU).

Offendere o discriminare non è libertà d’espressione, ma un atto che può e deve essere limitato per difendere la dignità altrui.

Una riflessione aggiuntiva, sempre amara, per concludere: anche prima “non si poteva dire tutto”, ma c’era più vergogna a discriminare. Oggi la violenza è sdoganata, amplificata da social e politica. Ecco il vero problema.

Educazione

In una società composta da soggettività e vissuti molteplici, quale ruolo può avere la scuola — e più in generale l’educazione linguistica e civica — nel promuovere il rispetto, la consapevolezza e la convivenza?

Si dice spesso che studenti e studentesse sono “il nostro futuro”, senza capire che sono già il nostro presente. La scuola non può limitarsi a trasmettere nozioni: deve stimolare curiosità, responsabilità e rispetto. Un’educazione completa include quella affettiva (troppo ostacolata nella nostra società) che comprende anche l’educazione linguistica e civica. Parlare di emozioni, identità, corpi e relazioni non è ideologia, ma prevenzione della violenza e promozione del benessere. Negare questi strumenti rende i giovani più vulnerabili, non più protetti: le domande restano, ma senza strumenti adeguati si cercano risposte altrove, spesso sul web, con rischi enormi.

Per questo è inaccettabile anche solo l’idea (oggi alla ribalta) che i genitori decidano quali libri possano essere letti a scuola: la scuola non è il prolungamento del salotto di casa, ma uno spazio autonomo di crescita. Lasciare la selezione dei contenuti alle paure di alcuni compromette il sapere universale e il diritto a riconoscersi, il diritto di essere inteso come diritto di esistere e vivere in sicurezza.

La scuola deve essere laica, libera, plurale. L’educazione affettiva aiuta a riconoscere le discriminazioni, a sviluppare senso critico e a smascherare la disinformazione: è uno strumento concreto per ridurre odio e violenza, anche quella violenza che, così spesso, oggi è sulle pagine di cronaca.

Azione collettiva

In un contesto in cui l’odio trova spazio e visibilità, quanto è importante che la collettività scelga di esporsi, di non restare in silenzio? Possiamo dire che usare il linguaggio in modo consapevole – per denunciare, per includere, per cambiare – è anche un atto di coraggio civile?

Sì, un linguaggio consapevole è un atto di coraggio civile.

Lo sa bene la Task Force Hate Speech di Amnesty International, dove ogni giorno cerca di ridurre l’odio nei commenti social, riportando dati e fatti, promuovendo un linguaggio più consapevole; spesso la risposta è altro odio; prima c’erano gruppi organizzati, oggi chi scrive certi commenti d’odio lo fa con convinzione: è un grave segnale.

L’odio si riversa anche su chi fa attivismo, con minacce di morte sempre più frequenti.

Le aggressioni per l’appartenenza (anche solo presunta) a gruppi sociali discriminati sono quotidiane. Manca, quello che dicevo prima, il diritto di essere, la possibilità di esistere e vivere in sicurezza.

I discorsi e i crimini d’odio colpiscono l’individuo per punire un intero gruppo sociale basandosi su uno stereotipo: ecco perché è tutto connesso, educazione scolastica compresa.

La risposta giusta è denunciare, lo dico da attivista più che da avvocato: anche senza leggi specifiche, esistono strade da percorrere; seppur meno efficace, condividere quei commenti in chiaro, qualora siano pubblici, con nome e profilo può aiutare a mostrare la realtà e far prendere consapevolezza a chi odia.

Esporsi è un atto di coraggio… ma chi diffonde odio deve assumersi la responsabilità delle proprie parole, dei propri limiti. Un tempo, almeno, come si diceva prima, ci si vergognava.

Nel silenzio le cose non possono migliorare, occorre parlare e agire per il bene comune, di oggi e di domani. È coraggio? Sì! Si può evitare? Secondo me non più.

Chi è Matteo Mammini? Matteo Mammini è avvocato, formatore e attivista, VicePresidente del Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, Referente Toscana e Coordinatore del Gruppo penale/penitenziario di Rete Lenford-Avvocatura per i diritti LGBTQIA+, componente del gruppo Advocacy della Rete Nazionale per il contrasto ai fenomeni ed ai discorsi d’odio, Cofondatore di Anemone-Centro Antiviolenza LGBTQIA+, avvocato di molte associazioni LGBTQIA+.

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