Caregiver silenziosi: la cura dei familiari di età alta come questione DEI

C’è chi, ogni giorno, dopo otto ore in ufficio, si precipita a casa non per riposare ma per preparare la cena a un genitore anziano (o di età alta, per usare un linguaggio più inclusivo) controllare le sue medicine o metterlo a letto. C’è chi organizza le ferie e permessi in base alle esigenze di cura, rinuncia a trasferte o opportunità di carriera, tiene il telefono a portata di mano in riunione “perché non si sa mai”.

Questo lavoro – costante, emotivamente intenso, quasi sempre non retribuito – ha un nome: caregiving familiare.

In Italia riguarda milioni di persone, ma resta ancora ai margini del dibattito pubblico e aziendale. Se ne parla raramente in ufficio e non compare di frequente tra le “pause di carriera” dei nostri curriculum digitali, eppure è un impegno che influenza profondamente la vita professionale e personale di chi lo svolge.

Nelle aziende, il tema della cura viene spesso associato alla genitorialità o all’assistenza di figli con disabilità, ma molto meno alla cura di familiari di età alta.

Eppure, con l’invecchiamento della popolazione e la carenza di servizi pubblici, questa forma di cura è destinata a crescere. Non si tratta solo di una questione privata: ha implicazioni dirette in termini di equità e inclusione aziendale, perché tocca aspetti come la parità di opportunità, la gestione del tempo di lavoro, il benessere organizzativo e il contrasto all’ageismo.

Chi sono i caregiver e perché la questione riguarda le aziende

Nel contesto italiano, il termine caregiver indica chi presta assistenza continuativa a un familiare non autosufficiente, senza un inquadramento professionale. Se spesso si parla di caregiver riferendosi a genitori di figli con disabilità o a chi assiste partner con malattie croniche, un segmento sempre più rilevante è quello dei caregiver di familiari di età avanzata.

Questa attività include un insieme di compiti che vanno dall’aiuto nelle attività quotidiane (pasti, igiene, spostamenti) alla gestione di cure mediche, pratiche burocratiche e coordinamento con servizi socio-sanitari.

Il rapporto 2024 del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) riporta i dati dell’European Institute for Gender Equality (EIGE) del 2022 secondo cui il 23,4% della popolazione italiana tra i 16 e i 74 anni si dedica al caregiving a lungo terminecioè a servizi di supporto e assistenza medica prolungata o continua nel tempo – almeno una volta a settimana. Si tratta della percentuale più alta tra i Paesi dell’Unione Europea.

Questo dato, spiega il rapporto, deriva da diversi fattori tra cui una minore disponibilità di servizi di assistenza pubblica, che porta le famiglie a gestire l’assistenza all’interno del nucleo familiare. Anche l’età media della popolazione italiana (48,4 anni) più alta rispetto alla media europea (44,5 anni) è naturalmente da tenere in conto. Alcune stime più ampie, riportate da Laura Mezzasoma e Alessia Valongo nella ricerca Il Caregiver familiare nell’intersezione tra riflessione psico-sanitaria e giuridica (Actualidad Jurídica Iberoamericana, nº 22, gennaio 2025), ipotizzano che il numero complessivo di caregiver in Italia superi i 10 milioni. La cifra è approssimativa per la natura stessa del caregiving, che spesso include anche attività di cura non continuative o non dichiarate.

Chi si prende cura dei propri cari, infatti, lo fa volontariamente e gratuitamente, lavorando quindi in un territorio non sempre raggiunto dalle statistiche ufficiali.

L’impatto sfaccettato e spesso invisibile del caregiving

Per capire appieno l’impatto del caregiving sulla vita professionale e sull’evoluzione di carriera, andrebbero considerati i molteplici fattori socioeconomici che ne stratificano l’esperienza: il genere della persona caregiver, il suo ruolo professionale, la condizione economica di partenza e l’accesso ai servizi.

Per quanto riguarda la prospettiva di genere, sia la ricerca di Mezzasoma e Valongo che il già citato rapporto del CNEL ci dicono che il caregiving familiare è un impegno primariamente femminile: sono caregiver soprattutto le donne tra i 45 e i 64 anni, con un impegno che può superare le 20 ore settimanali.

Queste ore, che si sommano all’orario di lavoro, riducono inevitabilmente lo spazio per formazione, progetti extra, trasferte o incarichi che richiedono flessibilità. Il risultato è un effetto a catena che rimpolpa le dimensioni del gender gap: minore accesso a opportunità di crescita, rallentamenti di carriera, rischio di essere escluse da ruoli strategici. Come già evidenziato nell’articolo Chi cura chi cura: il lavoro invisibile che pesa sul gender pay gap, queste opportunità mancate incidono poi sul reddito e sui contributi pensionistici, con un divario di genere che si amplifica nel tempo.

Altri fattori da considerare quando si analizza l’impatto del caregiving sulle opportunità professionali, sono il livello di reddito e la posizione lavorativa di partenza della persona caregiver: chi occupa ruoli a bassa retribuzione o con contratti meno stabili ha meno margini per ricorrere a servizi privati di assistenza e più difficoltà a chiedere o ottenere congedi. Queste difficoltà possono determinare una lenta fuoriuscita dal mondo del lavoro o l’impossibilità di migliorare la propria posizione professionale nel tempo.  

In più, il caregiving familiare è anche un terreno fertile per l’ageismo, la discriminazione basata sull’età: da un lato, le persone di età alta possono essere percepite come meno autonome o meno rilevanti; dall’altro, chi le assiste rischia di essere vista come meno produttiva o meno affidabile. 

L’impatto è anche psicologico. Come sottolinea la ricerca di Mezzasoma e Valongo, la gestione quotidiana della cura può generare stress cronico, ansia e sensazione di isolamento. In assenza di supporti adeguati, queste condizioni possono aumentare il rischio di burnout e peggiorare il benessere complessivo, con ricadute anche sulla produttività.

Le casistiche appena citate ci mostrano come le discriminazioni intersezionali – cioè l’esistenza simultanea di molteplici discriminazione che gravano su una stessa persona – non siano solo un concetto teorico: rappresentano invece un moltiplicatore di disuguaglianze che può rendere il caregiving un fattore di esclusione dal mondo del lavoro.

Per tutti questi motivi, e visto il significativo impatto economico e sociale, il caregiving familiare non può essere trattato con superficialità da parte delle aziende. Farlo significa perdita di talenti, aumento del turnover e rischi di esclusione per chi si trova a gestire un “doppio lavoro” – quello retribuito e quello di cura.

Incorporare questa complessità nelle politiche aziendali di diversità, equità e inclusione (DEI) significa riconoscere che “un approccio unico” non funziona: servono misure flessibili e personalizzate, capaci di rispondere a bisogni diversi e di ridurre i divari strutturali.

Cosa possono fare le aziende (e perché conviene farlo)

Sostenere le persone caregiver di familiari di età alta non è solo una scelta di responsabilità sociale ma, come abbiamo visto, anche una strategia per trattenere competenze, ridurre il turnover e migliorare il benessere organizzativo.

Ecco alcune azioni strategiche da cui partire:

  • Flessibilità oraria e organizzativa: offrire orari personalizzabili o part-time temporanei, senza penalizzazioni nelle opportunità di carriera.
  • Smart working adattato: consentire il lavoro da remoto o in modalità ibrida nei periodi di maggiore necessità di assistenza, garantendo continuità operativa.
  • Congedi retribuiti e non penalizzanti: estendere e integrare i congedi previsti dalla legge, assicurando che il loro utilizzo non limiti le opportunità di crescita professionale.
  • Supporto psicologico e servizi di counseling: offrire accesso a sportelli di ascolto e programmi di supporto emotivo per ridurre il rischio di burnout.
  • Formazione per il management: preparare le persone responsabili di team a riconoscere e prevenire i bias verso chi ha responsabilità di cura, evitando stereotipi di scarsa produttività o minore affidabilità.
  • Reti interne di caregiver: creare gruppi di ascolto e scambio di esperienze tra colleghi e colleghe che vivono la stessa condizione, per favorire supporto reciproco e proposte di miglioramento.

Investire in queste misure non significa “fare un favore” a una categoria ristretta, ma rafforzare l’intera organizzazione. Un ambiente che riconosce e sostiene i bisogni di cura crea fiducia, aumenta la retention e attrae persone che cercano contesti realmente inclusivi. Significa affermare che la cura non è una questione privata da gestire nell’ombra, ma un valore sociale e organizzativo che richiede condivisione di responsabilità.

Articoli correlati