Chi cura chi cura? Il lavoro invisibile che pesa sul gender pay gap

In ogni azienda c’è chi accoglie, ascolta, organizza, anticipa i bisogni del team: si tratta spesso di gesti informali, difficili da quantificare, ma fondamentali per il benessere collettivo. Gesti che riflettono un’abitudine più ampia e radicata: quella di prendersi cura.

Il lavoro di cura, infatti, non si esaurisce tra le mura domestiche. Comprende tutte quelle attività — materiali, organizzative, emotive — che rendono possibile la vita quotidiana, anche in ufficio.

È un lavoro essenziale, eppure spesso invisibile. E sono ancora soprattutto le donne a portarne il peso. Un peso che, anche quando non compare nei contratti o nei cedolini paga, ha conseguenze tangibili sul percorso professionale: basti pensare che il lavoro di cura è uno dei principali fattori che alimentano il gender pay gap

Ma cosa si intende esattamente con l’espressione “lavoro di cura”? 

Il lavoro di cura: definizione, esempi e impatto

Il lavoro di cura comprende una vasta gamma di attività essenziali per il benessere delle persone e il funzionamento della società. 

Si parla di cura formale quando queste attività sono svolte da professionisti (personale infermieristico, OSS, assistenti domiciliari, etc.); si parla invece di cura informale quando sono svolte da persone della propria cerchia familiare, amicale o del vicinato. 

La cura informale include azioni quotidiane e spesso invisibili, come:

  • organizzare le visite mediche di figli o genitori non autosufficienti;
  • occuparsi della spesa e della preparazione dei pasti;
  • gestire le pulizie, le lavatrici, l’agenda familiare;
  • offrire supporto emotivo a partner, persone amiche, colleghi in difficoltà;
  • prendersi carico delle incombenze burocratiche o finanziarie di casa.

Sono attività che richiedono tempo, attenzione, energia mentale. Eppure, non vengono quasi mai riconosciute o valorizzate, né sul piano economico né su quello simbolico.

Questa distinzione tra cura formale e informale riguarda principalmente il contesto domestico e familiare, ma non esaurisce tutte le forme in cui la cura si manifesta. Anche nei contesti aziendali, infatti, esistono gesti di cura non formalizzati né riconosciuti contrattualmente.

Un carico invisibile che pesa sulle donne

Per inquadrare meglio il tema del lavoro di cura e i suoi impatti, possiamo partire dalla sua dimensione culturale: la cura, soprattutto nelle sue forme relazionali e organizzative, è spesso considerata una “dote naturale” delle donne. Un’attitudine spontanea, che non va né insegnata né retribuita.

Lo ricorda anche la filosofa Silvia Federici nel suo saggio Il punto zero della rivoluzione (DeriveApprodi, 2013):

«Il lavoro domestico è stato trasformato in un attributo naturale e non riconosciuto come contratto sociale, perché era destinato a non essere retribuito. Il capitale ha dovuto convincerci che si tratta di un’attività naturale, inevitabile e persino gratificante per farci accettare di lavorare senza salario. A sua volta, il fatto che il lavoro domestico non fosse retribuito, è stato il mezzo più potente per rafforzare l’opinione comune secondo la quale esso non è lavoro.»

Secondo l’indagine ISTAT “I tempi della vita quotidiana” del 2019, in Italia le donne dedicano in media 5 ore al giorno al lavoro di cura non retribuito, contro le 2 ore e 16 minuti degli uomini. 

Il Piano di Uguaglianza di Genere 2024–2026 conferma l’asimmetria: il 60% delle donne dichiara di occuparsi quotidianamente del lavoro di cura informale, contro il 19% degli uomini. Questo divario è tra i più alti d’Europa.

Un segnale evidente di quanto il carico di cura, oltre che diseguale, sia anche fonte di pressione e affaticamento emotivo arriva dall’indagine 2025 dell’Osservatorio D su genitorialità e lavoro: 6 italiani su 10 dichiarano di sentirsi sopraffatti, almeno a volte, dal tempo richiesto per le attività di cura e gestione domestica. Il dato sale al 64% tra chi lavora e al 62% tra le donne.

Cura e gender pay gap: un legame strutturale

L’impatto di questo divario va oltre la sfera domestica e si riflette anche sulle opportunità professionali. Tra le conseguenze più comuni, troviamo:

  • una minore disponibilità di tempo per la formazione continua o per ricoprire ruoli di maggiore responsabilità;
  • una maggiore probabilità di accettare contratti part-time, spesso non scelti;
  • l’interruzione o il rallentamento dei percorsi di carriera;
  • una maggiore frammentazione lavorativa, con effetti negativi su salario, bonus e possibilità di avanzamento.

Anche il Global Gender Gap Report 2024 del World Economic Forum, ci ricorda che la dimensione della cura non retribuita rappresenta uno dei principali ostacoli alla piena partecipazione femminile al lavoro e al potere economico. 

In Italia, la situazione è ancora più marcata: le donne lavorano meno degli uomini, con un tasso di partecipazione del 40,7% contro il 58,1%. Anche laddove sono presenti, faticano a raggiungere ruoli apicali: solo il 42,6% dei Consigli d’Amministrazione è composto da donne, mentre appena l’11,5% delle aziende è a maggioranza femminile. 

Di conseguenza, il nostro Paese si posiziona al 111° posto su 146 per la partecipazione economica delle donne. Tra i fattori strutturali, proprio il peso del lavoro di cura emerge come elemento cruciale.

Tutto questo alimenta non solo il gender pay gap, ma anche il gender pension gap: nel lungo periodo, chi si prende cura degli altri accumula meno contributi e riceve pensioni più basse. Un circolo vizioso capace di penalizzare economicamente le donne lungo tutto l’arco della vita.

A complicare il quadro, si aggiunge il fatto che il lavoro di cura informale permea anche le dinamiche di lavoro in azienda.

Anche in azienda esiste un lavoro di cura (spesso invisibile)

Pensa alla persona del tuo team che fa da “memoria vivente” delle attività quotidiane, ricorda le scadenze, accoglie le persone nuove, prende appunti durante le riunioni o si incarica del lavoro emotivo nelle situazioni difficili. 

In molti contesti aziendali, questo ruolo è spesso ricoperto da una donna e si sviluppa in una dinamica non definita da ruoli espliciti ma da aspettative implicite. Chi viene percepita come “più adatta” alla cura finisce spesso per assumersi questi compiti spontaneamente, e quasi sempre senza riconoscimento formale.

Per questo motivo riconoscere la cura come competenza trasversale e redistribuirla equamente tra le persone del team è un passo importante verso ambienti di lavoro più giusti.

Le aziende che vogliono promuovere la parità devono quindi iniziare a considerare la cura come un elemento che attraversa tutte le carriere, non solo quelle femminili. Servono strumenti concreti:

  • politiche di flessibilità oraria davvero accessibili (e non penalizzanti);
  • congedi di cura aperti a tutte le persone, senza stereotipi di genere;
  • riconoscimento del carico di cura nella valutazione della performance;
  • cultura organizzativa che valorizzi l’equilibrio tra vita privata e lavoro, come responsabilità collettiva.

Condividere per redistribuire

Rendere visibile ciò che è invisibile è il primo passo per cambiare davvero. Per colmare il gender pay gap non basta promuovere l’uguaglianza salariale o l’accesso ai vertici aziendali: è necessario riconoscere il lavoro di cura — in casa, in azienda, ovunque si eserciti — come parte integrante del valore che ogni persona porta con sé. 

Non è una questione privata, ma un nodo strutturale della parità. Per costruire ambienti di lavoro più equi, il prendersi cura non deve più essere una condanna silenziosa, ma una responsabilità condivisa.

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